Chet Baker, poeta del jazz: «Io salvato dalla musica»

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Chet Baker è un’icona del jazz, un artista dal talento purissimo, una vera star degli anni Cinquanta del 900. Leggi l'intervista impossibile!
Chet Baker illustrazione

Chet Baker interpretato da Max Ramezzana

di Mariachiara Salvi e Claudio Rossi

Chet Baker è un’icona del jazz, un artista dal talento purissimo, una vera star degli anni Cinquanta del 900. Trombettista e cantante dallo stile inconfondibile, mix di delicatezza, eleganza e fragilità. Sapeva dare forma al silenzio suonando solo le note essenziali. La sua fama è avvolta da un’aura di genio e sregolatezza. Nelle numerose disavventure della sua vita è rimasto attaccato all’esistenza con una tenacia istintiva, grazie a una passione - quella per la musica - tanto potente da salvargli la vita. Purtroppo,  però, nel maggio del 1988 il filo sottilissimo a cui era appeso ha finito per spezzarsi e Chet è precipitato dalla camera del suo hotel di Amsterdam. La sua morte è ancora oggi un giallo irrisolto.  

Vivevi in California, a 16 anni ti sei arruolato nell’esercito (era il 1946, poi ci sei tornato nel 1948). Come mai?

«Speravo che l’esercito mi fornisse una strada per uscire dalla povertà e sfuggire alle tensioni che vivevo quotidianamente in famiglia. Suonavo nella banda della mia armata, guadagnavo del denaro, in fondo è stato un periodo abbastanza buono della mia vita».

Che cosa sarebbe stata la tua vita senza la musica?

«La musica è stata la mia salvezza. Ho avuto una vita molto difficile. Ho abusato di droghe e di alcol e la tromba era il mio rifugio. Ho lottato contro me stesso, contro un impulso autodistruttivo e la tromba era l’unica da cui non mi sentivo giudicato. Avevo con lei una relazione di intimità e abbandono totale. Quando suonavo entravo in un mondo “parallelo” dove trovavo serenità e dimenticavo i miei problemi. Senza la musica tutto sarebbe stato quasi impossibile».

“Quando suonavo entravo in un mondo “parallelo” dove trovavo serenità e dimenticavo i miei problemi. Senza la musica tutto sarebbe stato quasi impossibile

Hakuri Murakami ha scritto di te: «nel suo modo di suonare c’era qualcosa che faceva nascere in petto un ineffabile, lancinante dolore».

«Nella vita non ho mai saputo proteggermi: ho sfiorato le stelle e sono precipitato in molti abissi. Così la mia malinconia e la mia sensibilità si sono riversate nella musica imprimendole intensità e autenticità».

Chet Baker, (Yale 1928 – Amsterdam1988). Trombettista e cantante statunitense di musica jazz, noto per il suo stile lirico e intimista e per essere stato tra i principali esponenti del genere conosciuto come cool jazz.

Come descriveresti il tuo modo di suonare?

«Ho sempre ricercato e privilegiato un suono morbido e un fraseggio lirico. Mi ispiravo a Miles Davis, Lester Young, Harry “Sweets” Edison, ma sempre cercando di sviluppare uno stile personale. Ciò che mi premeva non era dimostrare la mia bravura, non mi interessava uno stile muscolare e virtuosistico. Preferivo cercare l’essenza del suono attraverso note prolungate e languide. Cercavo un’intimità spirituale. Tramite il canto e la tromba usavo il mio timbro vellutato come unico ponte tra me e il mondo».

Non hai mai composto, a parte l’esperienza – passata alla storia – con Gerry Mulligan e il suo quartetto senza piano. Nei tuoi dischi hai sempre inciso varie e varie versioni di pezzi del repertorio del grande Songbook del musical statunitense, gli standards. Che cosa rappresentano questi brani per te?

«Ho cercato di reinterpretare i grandi classici rendendoli miei. Forse la mia vita era troppo incasinata perché mi sorgesse l’urgenza della composizione. Modificare le melodie originali cercando di renderle ancora più belle e personali era il mio modo di comporre».

Claudio Rossi. Dopo il diploma al conservatorio di Lucca, studia al Berklee College di Boston. Ha svolto per più di 25 anni la sua attività di musicista fra Spagna e Argentina suonando in contesti di musica Jazz, latina e commedie musicali in teatro a Buenos Aires.

Avevi 25 anni nel 1954 quando una delle principali riviste di jazz, il DownBeat, ti ha proclamato il miglior trombettista al mondo, battendo delle star assolute come Miles Davis, Clifford Brown, Dizzie Gillespie. Ti ha dato forza o vivevi questo titolo come un fardello?

«Non ho mai considerato il jazz come una competizione, i musicisti sono compagni di viaggio, non avversari. La mia fortuna è stata che quando avevo 23 anni Charlie Paker mi ha sentito in un club e mi ha preso con lui. Suonando con il numero uno, i critici di tutti gli Stati Uniti mi sentirono.

Tuttavia non mi aspettavo arrivasse un titolo così importante, però ne sono grato perché ha fatto prendere il volo alla mia carriera. Da lì ho iniziato ad andare in tournée in Europa.

L’Italia è un Paese che ho amato e mi ha amato tanto, anche se l’anno passato recluso nel carcere di Lucca a causa del mio abuso di eroina, è stato tosto. Mi concedevano 10 minuti al giorno per suonare e lo facevo rannicchiato su un davanzale, con lo sguardo fuori dalla finestra, oltre le sbarre».

Quando sei uscito dal carcere ti sei goduto la libertà?

«Per un po’ son rimasto pulito, ma poi ho toccato il fondo. Ho perso i denti superiori. Avevo 37 anni. La mia carriera era al culmine. Non ricordo nemmeno come andò esattamente, ci fu una rissa fuori da un locale, dopo un concerto, e io venni colpito in viso.

Senza denti la tromba non si può suonare. Senza soldi non si può comprare una dentiera. Ho mollato la musica e sono andato a fare il commesso benzinaio».

Ti sei autoesiliato…

«La tromba era la mia vita, la mia seconda voce. Ero finito. E invece Dizzie Gillespie (lo straordinario trombettista che ha affiancato Parker per anni) mi trovò per caso, mentre faceva rifornimento alla pompa di benzina dove lavoravo. Mi propose di suonare con una protesi dentale, mi aiutò a trovare i soldi.

Inizialmente ero molto scettico, poi, piano piano, con molta costanza e determinazione sono riuscito ad adattarmi e a recuperare buona parte delle mie abilità. Quindi tutto è ricominciato. Per un po’ sono stato a New York, ma è in Europa che avevo più amici, così mi sono trasferito lì, vivendo soprattutto tra Olanda e Italia».

Mariachiara Salvi. Filosofa di formazione, autrice di programmi tv, saxofonista. Di origini bresciane, ha vissuto tra Milano, Palestina e Svezia. La musica è il suo primo amore, ma nei suoi vagabondaggi, ha dovuto interrompere. Tornare suonando jazz è stato rinascere. Nulla quanto la musica la tiene ancorata alla sua verità.

L’eroina è stata il tuo più grande nemico…

«Sì. Rimpiango certe scelte giovanili che sono state la causa di molti problemi. L’eroina mi illudeva di essere una fonte di conforto e un modo per alleviare i problemi di salute e il dolore emotivo accumulato negli anni. In realtà mi ha sedotto con un’enorme bugia. Mi aveva derubato della mia libertà, mi possedeva».

Umiltà, fragilità, grandezza: senti tue queste parole?

«Sì. L’umiltà è fondamentale per continuare a imparare e crescere come musicista. La fragilità ha certamente plasmato la profondità e la gamma di emozioni della mia musica. E se la grandezza si riferisce alle abilità musicali, questo non posso giudicarlo io. Se c’è “grandezza” nella mia musica è certamente il frutto di un lavoro costante di ricerca della bellezza. La bellezza di suoni puri, tesi all’infinito, è stata la mia sola autentica libertà».

“La bellezza di suoni puri, tesi all’infinito, è stata la mia sola autentica libertà”.

Che cos’altro ti è caro?

«Prima di tutto la sincerità. Quando si suona bisogna essere sinceri con sé stessi e con il pubblico. Poi la passione: se non c’è passione vuol dire che non si ama quello che si sta facendo e i risultati saranno sicuramente mediocri. Il rispetto: per la musica e per gli altri musicisti. La libertà: la musica è un mezzo potentissimo che ci fa sentire liberi e ci permette di sopravvivere nelle prigioni della vita, sia materiali che immateriali».

Qual è il tuo disco che ami di più e perché?

«Il mio disco preferito è Chet Baker Sings del 1954, dove credo di essere riuscito a creare un perfetto equilibrio, intimo ed elegante, fra la mia voce e il mio strumento».

Che disco (non tuo) ami di più e perché?

«Adoro il disco di Miles Davis Kind of Blue. Miles è stato un artista in continua e costante evoluzione e questo disco è il caposaldo della storia del jazz. Ha ispirato molti musicisti e continuerà a ispirare le generazioni future».

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