di Giangiacomo Schiavi e Margherita Luciani
Gianni Bonadonna è stato, con Umberto Veronesi, uno dei pionieri delle cure contro il cancro ed è considerato il fondatore dell’oncologia medica in Italia. Grazie alle sue ricerche e alle sue terapie, l’Istituto nazionale dei Tumori negli anni Settanta è stato definito dalle riviste scientifiche americane «l’altra Scala di Milano».
Ha creato dal nulla l’oncologia pediatrica e dato una speranza a migliaia di malati con cure sperimentali e innovative. Nel 1995, all’età di 60 anni, un ictus ha interrotto la sua carriera di grande medico: è diventato un paziente. Ma non si è arreso. La sua battaglia è diventata quella per una medicina più umana.
Giangiacomo Schiavi ha scritto con lui Medici umani, pazienti guerrieri (Baldini e Castoldi) e Il mistero della Notte, una diagnosi per Michelangelo (Nave di Teseo).
Gianni Bonadonna: dove nascono il coraggio e la voglia di aiutare
Com’è nata l’idea di dedicarsi interamente all’oncologia?
«Non sapevo che avrei fatto l’oncologo, sapevo che volevo fare il medico. La lotta al cancro è diventata la mia sfida quando ho letto questa scritta allo Sloan Kettering di New York: “Entro queste mura pochi lavorano incessantemente perché molti possano vivere”. Da allora linfomi e chemioterapia hanno dominato la mia esistenza, prima in America, poi all’Istituto dei Tumori».
Come nasce in lei la radice dell’ innovazione?
«La vita è un accumulo di esperienze e molte volte esiste la legge del caso. Ho lasciato l’Italia negli anni Sessanta per cercare la mia vocazione negli ospedali di Canada e Stati Uniti. Credevo nel merito e non nelle raccomandazioni, per questo vedevo in America il mio destino.
Con una borsa di studio sono stato ammesso alla scuola di David Karnofsky, il padre della terapia medica dei tumori. Ho imparato tutto da lui e da un’eccezionale squadra di ricercatori. L’oncologia moderna è nata lì, con i primi farmaci e le prime sperimentazioni.
Ci sentivamo dei samurai in lotta contro un nemico subdolo e crudele, ci siamo battuti per evitare la mutilazione chirurgica alle donne colpite da tumore al seno, abbiamo capito che il cancro è un male curabile e in molti casi guaribile. Karnowfsky poi diceva che il carattere del medico può produrre nel paziente un effetto pari o superiore a tutti gli altri rimedi: una lezione di umanità».
Karnowfsky poi diceva che il carattere del medico può produrre nel paziente un effetto pari o superiore a tutti gli altri rimedi: una lezione di umanità»
– Gianni Bonadonna
Umanizzare la medicina
Rispetto all’umanizzazione della medicina, quali sono i principi ispiratori? Perché è cosi importante secondo lei?
«L’umanizzazione della medicina l’ho vista da vicino a Calcutta, nell’ospedale di Madre Teresa. “Come aiuta questi infermi?”, le ho chiesto. “Only love and care”, mi ha risposto, solo amore e assistenza. All’Istituto dei tumori avevamo qualche cosa in più: le prime terapie con la chemioterapia adiuvante, la cura per il linfoma di Hodgking.
Ma la battaglia tra cura e assistenza non può essere risolta da nuove scoperte o innovazioni tecnologiche. Il medico deve sedersi sul letto del malato, è più importante sapere quale tipo di paziente è colpito da una determinata malattia, che non quale malattia affligge il paziente. A volte mi sono chiesto anch’io se sono stato un medico umano. Per anni, davanti al bivio tra uomo e scienza, ho scelto la scienza, sacrificando l’intimità con i miei pazienti. Ma l’obiettivo era alto: era salvare la vita. Come in una guerra, volevamo vincere».
“Il medico deve sedersi sul letto del malato, è più importante sapere quale tipo di paziente è colpito da una determinata malattia, che non quale malattia affligge il paziente.”
– Gianni Bonadonna
Lei ha chiesto l’insegnamento dell’umanità anche nelle università di medicina. È stato fatto qualcosa?
«Direi poco. I medici sono schiacciati dalla burocrazia, il tempo per il paziente è ridotto. C’è un grande bisogno di prendersi cura della persona malata, sollevarla dal dolore e dalla solitudine. Ho scritto un libretto dedicato alla medicina etica, quella che l’università non insegna. Solo così i medici non si renderanno complici del marketing della salute.
Il rischio è di avere tanti “protocol doctors”, dei trascritttori e non dei clinici. E lo dico io, che i protocolli di cura per i tumori li ho inventati. Ma servivano ad evitare improvvisazioni, a mettere dei paletti. Ogni malato è una storia a sé. E la cura è anche fatta di ascolto, osservazione, empatia. Tutte cose che l’università non insegna. Si impara, per esempio, dai volontari…».
“La cura è anche fatta di ascolto, osservazione, empatia. Tutte cose che l’università non insegna. Si impara, per esempio, dai volontari.”
– Gianni Bonadonna
Quando lei stesso si è ammalato, che cosa ha potuto capire nei panni di paziente e quali caratteristiche dovrebbe avere una buona relazione medico-paziente?
«Quando mi sono trovato dall’altra parte ho cominciato a pensare alle cose che contano davvero nella vita, e a quanto è importante agire sulla forza di volontà, sulla capacità di non arrendersi, di generare un’alleanza tra medico e paziente.
La medicina del futuro deve guardare il malato nella sua interezza, deve capire la sofferenza, non limitarsi a un adempimento tecnico. Da malato ho capito che ogni giorno può essere impreziosito da qualcosa di bello, il tumore oggi non è più il brutto male, come si diceva in passato quasi vergognandosi. L’oncologia ha dato qualche speranza in più. Noi ricercatori non abbiamo lottato invano».
Guardando uno dei suoi pazienti negli occhi, che cosa gli dice per prima cosa?
«Cerco di capire la sua paura e come si può dare speranza. Ma c’è anche il terrore negli occhi di chi teme una diagnosi infausta. E allora serve uno sforzo di attenzione del medico, quell’attenzione che può sospendere il sentimento del male e rimettere in un orizzonte positivo i pensieri.
A volte, però, non ho trovato le parole per chi mi chiedeva una cura impossibile, o per chi mi diceva: “Professore cosa posso fare?”. È importante chiedere perdono, dice Bergman nel film Il posto delle fragole, che racconta la storia di un medico che aveva perso la sua umanità. La psicologia del medico e del paziente sono importanti, ma senza umanità siamo finiti, la medicina è mutilata».
Come si infonde speranza, fine ultimo della terapia e della vita stessa?
«Il cancro non ti toglie la vita, te ne dà un’altra, diversa. L’esperienza vissuta ti può aiutare a non commettere errori, a evitare quel che è inutile e futile. Se sei un medico devi aggiungere buona vita alla vita con i farmaci e la chirurgia, togliendo il dolore.
La malattia non porta via le emozioni e i sentimenti, un po’ li cambia. Io ho cercato i sentimenti positivi nell’arte, nel teatro e nella musica. Aiutano la speranza. Le imperfezioni e le cicatrici fanno parte di noi, sono il segno della nostra umanità. Sono stato un medico famoso, premiato come una star, mi chiamavano “Bonadonna l’americano” perché lavoravo in sintonia con i centri di ricerca sul cancro statunitensi.
Ma l’aver vissuto sulla mia pelle una grave malattia invalidante mi ha fatto capire che dovevo fare qualcosa di più: battermi per l’umanità dei medici. Sarà questo in futuro a fare la differenza tra noi e un algoritmo».
“A volte mi sono chiesto anch’io se sono stato un medico umano. Per anni, davanti al bivio tra uomo e scienza, ho scelto la scienza, sacrificando l’intimità con i miei pazienti. Ma l’obiettivo era alto: era salvare la vita. Come in una guerra, volevamo vincere».”
— Gianni Bonadonna