La tirannia del merito egoista ed individualista: intervista a Michael J. Sandel

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Roberto Pesenti ha intervistato il professor Michael J. Sandel sul significato filosofico e sociale della meritocrazia. Leggi l'intervista!

di Roberto Pesenti, B.Liver

Michael J. Sandel, professore di filosofia politica e teoria del governo dell’Università di Harvard discute sul significato sociale e filosofico della meritocrazia, quando diventa il fattore più profondamente corrosivo del bene comune. Per l’accademico americano il successo delle persone è un frutto collettivo: possiamo ritrovare l’uguaglianza e lo sviluppo di cui abbiamo bisogno solo riconoscendo il debito di gratitudine agli altri.

Meritocrazia e uguaglianza

New York. Meritocrazia e uguaglianza. Cosa deve esserci in mezzo a queste due parole astratte per renderle concrete nella nostra vita quotidiana? Risponde il professor Michael Sandel, 65 anni, titolare della prestigiosa cattedra «Teoria del Governo» all’Università di Harvard e autore dell’acclamato e contestato La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti: «In mezzo ai due valori – sostiene Sandel- ci deve essere il nostro contrasto all’egoismo competitivo e all’individualismo esasperato e poi il riequilibrio sociale attraverso meccanismi di equità, parametro essenziale nel misurare lo stato di salute di una democrazia vera, capace di allargare le prospettive di mobilità per tutti gli individui, di tutti i gruppi».

Si è appena svuotata la grande aula della Columbia University dove Michael Sandel ha tenuto un incontro superaffollato in un clima molto acceso che pare andare nella direzione opposta alle sue idee comunitarie. Il discorso pubblico americano si è infiammato perché qualche giorno fa la Corte Suprema degli Stati Uniti ha cancellato la discriminazione positiva, cioè le corsie preferenziali negli accessi all’università, che per decisione del Presidente John Fitzgerald Kennedy, da sessantadue anni, sosteneva gli studenti svantaggiati «per ragioni di credo, colore e origine nazionale».

È il momento giusto per fare la prima domanda diretta al filosofo politico:

Adesso cosa succederà per i programmi universitari di ammissione per le minoranze nere, ispaniche, asiatiche? Vale solo il merito o, come dicono in molti, i soldi di famiglia?

«È stato cancellato in gran parte il tentativo di rimediare alle ingiustizie subite in passato dagli studenti afroamericani e gli effetti si allargheranno oltre i recinti universitari. Si è smantellata l’introduzione di princìpi di valutazione differenziati per l’ammissione agli studi universitari, basati sull’appartenenza razziale a minoranze etniche svantaggiate – principalmente gli afroamericani – con l’intendimento di compensare secoli di sfruttamento e discriminazione.

Si rafforza, al contrario, l’ideologia della meritocrazia totale che tende a coprire la crisi dell’eguaglianza per le persone che si impegnano e lavorano tanto, ma che si trovano davanti al mancato accesso a una formazione scolastica adeguata, a secondo del proprio reddito e del colore della pelle».

“È stato cancellato in gran parte il tentativo di rimediare alle ingiustizie subite in passato dagli studenti afroamericani e gli effetti si allargheranno oltre i recinti universitari.”

– Michael J. Sandel

Quali sono gli altri prevedibili contraccolpi di questa sentenza della Corte Suprema?

«Una conseguenza è che, sul fronte dell’impresa e del lavoro, non bisogna restringere ma allargare ulteriormente il riconoscimento a coloro che danno un contributo importante al bene comune, indipendentemente dal fatto che abbiano o meno lauree magistrali o credenziali prestigiose.

Dovremmo valutare meno le persone per la competizione meritocratica e concentrarci di più su come rinnovare la dignità del lavoro, ricordando che il lavoro non è solo un modo per guadagnarsi da vivere, ma è anche un modo per contribuire al bene comune e ottenere riconoscimento e stima sociale».

Michael J. Sandel (Minneapolis, 1953). Professore di Filosofia politica e Teoria del governo alla Harvard University. Spesso ospite di università in Europa e in Asia, le sue opere sono state tradotte in ventuno lingue. Il suo libro “La tirannia del merito. Perché viviamo in una società di vincitori e di perdenti” è stato pubblicato quest’anno in Italia da Feltrinelli. Illustrazione di Chiara Bosna.

Il peso delle disuguaglianze

Le sue lezioni, come questa mattina, sono sempre più affollate…

«Sta cambiando la percezione di cosa è davvero il merito come teoria di progresso. Il nostro mondo nei decenni passati si è costruito attorno al merito personale, diventato un’ideologia che giustifica moralmente il successo di chi riesce e condanna e umilia chi non ce la fa. Ci sono sempre più cittadini che si sono resi conto che non basta più solo far fruttare impegno e talento: ormai pesa sempre più la fortuna, le relazioni della famiglia di origine».

Solo un terzo degli americani è favorevole alle corsie preferenziali per le minoranze: molti sostengono che il merito non è egoismo e che la critica indebolisce la responsabilità individuale, attenua l’impegno personale.

«Questa è una mistificazione. La selezione, soprattutto quella universitaria, impiega molti criteri di valutazione. La realtà è che la maggioranza di chi accede a livelli superiori di educazione universitaria negli Stati Uniti e non solo qui, viene dalle fasce più ricche della società. Questo è il frutto della ridotta redistribuzione della ricchezza e così si perpetua il circolo della diseguaglianza, abbassando il livello di diversità sociale delle élites».

Superare l’idea moderna di meritocrazia potrebbe condurre a un mondo in cui tutti hanno lo stesso reddito, la stessa quantità di ricchezza, e sono dunque tutti uguali nel senso più deprezzato del termine.

«La democrazia non richiede un’uguaglianza tra tutti gli individui, ma che le persone appartenenti a background sociali diversi abbiano la possibilità di incontrarsi e di fondersi nel corso della loro vita quotidiana, generando diversità.

Oggi questo avviene sempre meno, e stanno qui le ragioni di una crescente disuguaglianza fra i ceti, le generazioni, i fattori principali delle ribellioni populiste di questi decenni, della costante insoddisfazione che si registra nelle nostre società.

Perché l’ascensore sociale in molti Paesi si è fermato: a seconda dell’accesso a determinate risorse economiche, mandiamo i figli in scuole diverse, frequentiamo zone diverse della città, scegliamo mete diverse per le vacanze, abbiamo accesso a beni culturali diversi.

La mia critica alla meritocrazia non vuole incoraggiare l’uniformità e neanche chi non studia e chi non lavora. Non mi piacciono affatto i sistemi di potere basati sulle carriere relazionali costruite dagli “amici degli amici”, tutt’altro. Con le mie ricerche indico le derive negative di una visione del mondo che sostiene di produrre l’opposto di quanto promette».

Che alternativa realistica propone a quell’ideale meritocratico che in molti Paesi è sentito come un’innovazione giusta e sacrosanta perché ha eliminato i privilegi aristocratici di nascita?

«Il principio meritocratico, vale a dire che talento e impegno possono farci raggiungere qualsiasi traguardo, non funziona più come antidoto alla segregazione e all’esclusione. È diventato il mito della meritocrazia, assunto come principio ordinatore di una società giusta.

Troppi cittadini oggi hanno la sensazione di non essere più riconosciuti per quello che sono, nonostante i loro sforzi. Solo se accettiamo che il successo individuale non è il fine ultimo della società possiamo ritrovare l’uguaglianza e lo sviluppo di cui abbiamo bisogno.

Io penso che ci sia un’alternativa. Primo: la creazione di una vasta uguaglianza democratica di condizioni di partenza, in particolare per le nuove generazioni che hanno bisogno di realizzarsi in pieno e cercano un senso della vita più grande. Secondo: le carriere vanno aperte ai talenti. Terzo: le posizioni di lavoro vanno aggiudicate a chi se le merita, non in base a principi clientelari. Io mi auguro che questa fame di senso, che vedo anche nei miei studenti di Harvard, così come nei tanti giovani che ho incontrato in Cina, spinga alla riflessione su come vediamo il nostro ruolo nel mondo e i nostri legami con gli altri».

“La mia critica alla meritocrazia non vuole incoraggiare l’uniformità e neanche chi non studia e chi non lavora. Non mi piacciono affatto i sistemi di potere basati sulle carriere relazionali costruite dagli “amici degli amici”, tutt’altro. Con le mie ricerche indico le derive negative di una visione del mondo che sostiene di produrre l’opposto di quanto promette.”

– Michael J. Sandel

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