di Eva Crivelli, B.Liver
Giuseppe Vessicchio è un musicista, arrangiatore, direttore d'orchestra, compositore e personaggio televisivo italiano, principalmente attivo nell'ambito della musica leggera e della televisione. Quando parla di musica, parla di vita, ed insieme a lui scopriamo le magiche combinazioni armoniche che si celano negli angoli nascosti dei nostri vissuti; ascoltando le sue sagge parole, non possiamo fare altro che dire «Grazie, Maestro».
Perché ha deciso di prendere parte a Rondine? Lei ci ha parlato di come l’arrivo di una nota «esterna» a un contesto, una dissonanza, possa diventare un’ opportunità per arricchire l’insieme e la sua armonia. È «solamente» una deformazione professionale, o parte da un’esperienza umana?
«Ho ritenuto partecipare perché in musica il concetto di pace è il presupposto per una giusta armonia. Fin dalla nascita di questo linguaggio, la sensibilità degli studiosi è stata guidata, perché naturalmente attratta, dalla bellezza, dall’eufonia che scaturisce quando le note di un insieme vibrano in pace tra loro, senza “battimenti”, cioè senza quel fenomeno che in fisica acustica testimonia la sensazione fastidiosa che indichiamo come “scordatura”.
La dissonanza, che non è una scordatura, è la condizione critica che va ad assumere una nota in relazione a un divenire armonico nel quale si ritroverebbe ad essere in eccessiva tensione con l’accordo che l’accoglie e a cui parteciperà. Quindi, a Rondine ho tenuto a sottolineare che una dissonanza, attraverso un corretto procedimento, diventa occasione per generare evoluzione, allargare ed arricchire la potenzialità dell’insieme di voci cui parteciperà.
“a Rondine ho tenuto a sottolineare che una dissonanza, attraverso un corretto procedimento, diventa occasione per generare evoluzione, allargare ed arricchire la potenzialità dell’insieme di voci cui parteciperà.”
– Beppe Vessicchio
La ricetta per realizzare questa indispensabile “pace” tra le note, prevede che la dissonanza sia innanzitutto riconosciuta, atto di consapevolezza, preparata nel suo ingresso, atto di volontà orientato al bene di tutti, e infine risolta, cioè, una volta partecipe dell’insieme, ricondotta alla funzione che è necessario assuma per la stabilità del nuovo corso di crescita del sistema.
Credo che questa basilare regola desunta dal comportamento fisico e naturale del suono sia anche una splendida metafora per “far pensare”. Nella mia vita, cronologicamente, arriva prima la conoscenza di questa norma musicale e in seguito l’esperienza umana che mi ha offerto l’occasione per riconoscerle ancora più importanza e determinazione nella capacità di generare la convivenza ottimale di più voci destinate a coesistere. Io la definisco Polifonia Armonico-Naturale (PAN)».
L’arte e la cultura possono creare luoghi di unione e di uguaglianza? In che modo?
«La coltivazione della conoscenza è un atto d’amore verso quello che ci circonda e ci comprende, quindi anche verso noi stessi. L’arte è ritenuta frutto dell’esigenza, più o meno conscia, di manifestare attraverso qualsiasi linguaggio, la riconoscenza per aver colto la propria esistenza nel valore del tutto. Se accettiamo queste due definizioni, entrambi i soggetti risultano svolgere un ruolo fondamentale per il vivere sociale che basa la sua forza proprio sull’unione, ovviamente nel segno dell’uguaglianza».
Quando è stato il momento della sua carriera in cui ha trovato un luogo in cui poter dare e ricevere fiducia?
«Avevo poco più di vent’anni e con Peppino Gagliardi prima e Gino Paoli dopo, scambiammo fiducia. Per me fu ovvio riconoscerla a loro, vista l’enorme levatura artistica di cui già godevano. Nello scambio loro hanno più meriti perché si sono fidati di un musicista anagraficamente giovane. Questo non mi assoggettò, anzi, mi indusse responsabilmente a manifestare qualsiasi perplessità si profilasse lungo la collaborazione.
Abbiamo ognuno dovuto correggere la personale rotta per dare un senso a questo atto di reciprocità. Con Gino arrivammo a co-comporre una serie di brani. I risultati della nostra collaborazione sono stati Averti addosso, Ti lascio una canzone, Coppi, Cosa farò da grande, Io ci sarò e varie altre canzoni, oltre a un rapporto affettivo e intellettuale del quale ho potuto beneficiare. Mi chiedeva il luogo? La fiducia è uno stato mentale. Direi che il luogo è stato il suo tempo».
Lei pensa che la musica possa essere uno strumento per superare i conflitti?
«Quando lavoro con musicisti stranieri stabiliamo un inconsapevole contatto profondo, proprio attraverso il linguaggio musicale. Ci riconosciamo nel segno della reciprocità attraverso l’esercizio della sensibilità, della passione, competenza senza dubbi e reciproca certezza. Ci fondiamo tutti in un unico corpo che è l’orchestra.
Poi, magari tutto questo cambia perché ci ritroviamo, senza strumenti in mano, a praticare il limitato e limitante linguaggio della confortevole dipendenza che stabiliamo con le rispettive tradizioni: politiche, religiose, campanilistiche o alimentari che siano.
La musica utilizza un livello più profondo di comunicazione, svincolato da tutte queste sovrastrutture che, usate inopportunamente, ci dividono».
“La musica utilizza un livello più profondo di comunicazione, svincolato da tutte queste sovrastrutture che, usate inopportunamente, ci dividono.”
– Beppe Vessicchio
Perché ha scelto di trasformare la musica nel suo lavoro?
«Da ragazzo sognavo solo di poter aver a disposizione più tempo possibile per gioire nel fare musica. Un amore puro. Il lavoro è arrivato perché solo in quest’ambito puoi aspirare ad avere un’intera orchestra per sperimentare quello che senti nella mente. Dopo ho cominciato ad apprezzare il senso di competitività generato dal mercato del lavoro, approfittandone per affinare le competenze “mirate” al settore “leggero”. Mi ritengo fortunato perché ho potuto dedicare molto tempo alla mia passione facendola coincidere con un ruolo produttivo all’interno del sociale di cui partecipo».
Se potesse dirigere un’orchestra, in qualsiasi luogo del mondo, dove vorrebbe suonare? E cosa suonerebbe?
«Partirei dalla fine della domanda. Prima comporrei Musica Armonico-Naturale con il preciso obiettivo, attraverso una precisa orchestrazione, di far circolare consapevolmente tra tutte le famiglie di strumenti l’importanza del proprio contributo. Nessun subalterno.
Proporrei quindi di costituire un’orchestra di giovani musicisti al di sotto dei ventisette anni, tutti rigorosamente volontari, provenienti soprattutto da Paesi che stanno attraversando conflitti e che credono nella pace a tal punto da non preoccuparsi se al loro fianco, a dividere il leggio, possano trovare uno che per nascita, o nazionalità, risulti essere tra gli oppositori.
Chi pratica la musica sa riconoscere e apprezzare la “pura intenzione”, così come l’impegno necessario per concretizzarla in un gesto formalmente impeccabile, dove l’unico vincitore è l’effetto aggregante per condivisa empatia. Nell’opera da comporre non farei uso né di slogan né di proclami. Basta l’armonia creata dalla pace che regna tra i suoni.
Il direttore sarebbe meglio che ad eleggerlo democraticamente fossero gli stessi professori dell’orchestra, perché sanno, senza dubbi, chi è veramente capace di ricoprire questo ruolo a favore della loro resa. Il luogo? Dove un pubblico lo richiederebbe, perché anche loro hanno il dovere di scegliere per poter fare la parte che gli spetta».
Un’orchestra è l’esempio di armonia perfetta: quali sono i princìpi che permettono tale equilibrio? Qual è il compito del direttore d’orchestra?
«Diciamo che l’orchestra si propone di rappresentare tale valore attraverso la propria attività. Le qualità che devono convergere non sono poche. Prima fra tutte, oltre la propria onestà intellettuale, credo sia fondamentale la voglia di generare unione. Anzi, meglio, comunione, in senso laico.
Il direttore ideale sarebbe colui che non impone ma intuisce e condivide le intenzioni che quel gruppo è capace di generare. Talvolta accade… per un brano o magari un suo tratto. Chi lo ha provato, sul podio o al leggio, non dimenticherà mai la sensazione straordinaria che ha avuto il privilegio di vivere».
Se dovesse associare una canzone, o una sinfonia, a un luogo che per lei rappresenta un luogo di uguaglianza e fratellanza, quale sarebbe? E perché?
«Accettando il gioco, direi d’istinto Imagine di John Lennon. Nel mio immaginario quest’anno la composizione racchiude e sintetizza in maniera popolare i concetti fino ad ora espressi. Il luogo… vediamo… potrebbe essere il Tibet, per la vocazione alla pace interiore che quei panorami da sempre nutrono. Senza volerlo, sarebbe l’Occidente che incontra l’Oriente, il “pop” che scambia con il culto della spiritualità. Leggendo qua e là ho scoperto che Armonia è anche una figura mitologica, figlia di Marte e Venere. Anche qui due opposti che si incontrano con l’obiettivo di generare colei che proteggerà e ispirerà coloro che opereranno per una pace».