di Mario Luzzato Fegiz e Oriana Gullone
«La cosa che mi piace di più non è mai quella che sto facendo, ma quella che farò dopo, anche se non la so fare». Questa Lucio l’ha detta davvero, in un’intervista a Pop su Rai 5. La sua ultima intervista, pare. Ma la sensazione è che Lucio non se ne sia mai andato via. Lo vado a trovare sempre in piazza de’ Celestini, se passo da Bologna. Se gli occhi si fermano sulla sua ombra di fianco al balconcino abbastanza da perdere un po’ la messa a fuoco, senti ancora il clarinetto che suona. Non riesco a dargli del tu, come quando lo saluto in piazza de’ Celestini. Parto con le domande, senza convenevoli. Lui apprezza. Busso a delle porte che lui apre portandomi da tutt’altra parte rispetto a quello che mi aspettavo. Va bene così.
Che musica ascolta adesso?
«Qualsiasi cosa. Ho sempre la radio accesa. Il nuovo mi ha sempre attirato da matti, è il futuro, quello che succederà, come questi ragazzi che fanno rap. Il presente mi annoia abbastanza, il passato me lo scordo. Ho anche un po’ imparato a usare Spotify, mi diverto, esploro».
Cosa le verrebbe voglia di scrivere?
«Una sinfonia, probabilmente. Mi piace sperimentarmi. Ogni tanto mi innamoro di qualche disciplina e la pratico. Sono un elemento che si mischia con le zone più strane dell’esistenza. Sono un coboldo (folletto poco socievole, di tradizione tedesca NdA), un contadino della terra, un pescatore di sogni impossibili, e anche ballerino, nel mio piccolo, con un certo fascino».
A proposito di sperimentarsi, ha raccontato spesso di voler lavorare a un film basato su Futura. Che idee ha?
«Probabilmente metterò su un grande circo. Più invecchio, più sono curioso e mi sono specializzato soprattutto nel fare le cose che non so fare! È buffo questo mio accanimento, ma mi ritengo fortunato, perché l’energia è una componente fondamentale della mia vita.
Ci sono momenti in cui la vita ti offre delle sfighe su un piatto d’argento, ti capita qualcosa di strano, hai un momento di smarrimento. In queste circostanze so, per esperienza, che c’è sempre un rimbalzo positivo. Così come c’è un rimbalzo negativo in tutte le botte di fortuna che ti arrivano.
Questo equilibrio, che richiede una certa temperanza e visione di insieme, crea adrenalina mista a curiosità, che in me sono innate. Preferisco le cose che non so ancora fare, a quelle che so fare bene. A parte che è ancora da chiarire quali so fare bene, perché mi dispiace concluderle.
C’è sempre qualcosa di magico nel non finire, nel non contemplare, nel non riempire il bicchiere, bisogna lasciare sempre un piccolo spiraglio di desiderio insoddisfatto».
Ha lasciato molti «figliocci» in giro: Ron, Bersani, Carone… Per tutti sembra che Bologna abbia qualcosa di unico nel far nascere musica. Li ascolta, li segue?
«A differenza di ciò che la gente può credere, ho un caratteraccio. Da questi discepoli ho preteso moltissimo, e durante le prove tiravo posacenere e microfoni quando vedevo che non si impegnavano. Ma non credo di aver creato una vera e propria scuola.
Bologna è sicuramente particolare. “Bologna con i suoi orchestrali”, canta De Gregori. Ma, in generale, non credo si possa parlare di scuola genovese, bolognese, romana o milanese. Ci sono state aggregazioni particolari. Un gruppo di artisti, che faccia un po’ squadra, forse oggi manca. Io avevo voglia di insegnare tante cose a questi ragazzi che davano così tanto, forse l’avevo un po’ per vocazione».
La dimensione, ormai leggendaria, delle osterie di Bologna, aiutava nel passaggio generazionale?
«Sì, ha lasciato sicuramente un’impronta importantissima. C’erano delle figure di contorno come Tobia (Righi, manager di Lucio, NdA) e Bibi Ballandi che hanno aiutato a creare quell’aggregazione. I capolavori nascono dall’incontro. La vita, amico, è l’arte dell’incontro (album di Vinícius de Moraes, Giuseppe Ungaretti e Sergio Endrigo, NdA). E a me è andata sempre molto bene, sotto questo punto di vista».
Quale vorrebbe che fosse la sua eredità? Le chiederei le nostre solite tre parole, ma credo serva rompere la tradizione…
«Se esistesse un’enclave che vede me disposto a calare le braghe, sarebbe Napoli. Per devozione alla città ho cantato Malafemmina con la London Symphony Orchestra e scritto Caruso, che è un testamento spirituale.
Con la mia barca, che si chiamava Catarro, rimango senza motore al largo. Per fortuna c’è un po’ di vento, la barca è dotata di vela e raggiungo il porto più vicino, Sorrento. Mi consigliano un albergo, il Victoria Palace, dove un anziano concierge mi porta per una scala scricchiolante e mi dà una suite. Non una qualsiasi: quella dove passò l’ultima settimana della sua vita il grande tenore Caruso.
Mi faccio raccontare quei suoi ultimi giorni. Caruso ha un cancro alla gola, ogni acuto è una pugnalata, ma lui non rinuncia a corteggiare con il suo canto un’allieva della quale è perdutamente innamorato. Una sera chiede che si porti il pianoforte sulla terrazza dell’albergo per dedicarle un’ultima sinfonia.
I pescatori sentono un canto a cui è impossibile resistere, abbandonano il lavoro e vanno sotto la terrazza con le barche ad ascoltare. Qui ho l’idea: la potenza del canto lirico, dove ogni dramma è un falso. Ma quella sera no. È tutto vero, l’amore, la morte, il dolore. Ho aggiunto a quella storia i pezzi in napoletano per dare l’epica giusta. Mai avrei pensato che avrebbe venduto 30 milioni di dischi nel mondo. Pensa se non avessi rotto la barca…».
È magico come tornino elementi che mi aspettavo: giocare con tutto senza sentirsi esperto in niente, il rapporto col mare e quello con le storie che incontra, che diventano tutte dei piccoli film. Perciò mi incuriosiva il progetto su Futura, perché nella mia testa quasi tutte le sue canzoni sono dei piccoli cortometraggi.
«Hai ragione, non ti ho risposto bene. Non hai idea di quanti, negli anni, mi hanno detto: “In quel periodo dovevo diventare genitore, e se fosse nata femmina, l’avremmo chiamata Futura”. Il minimo era farci un film».