di Federica Margherita Corpina, B.Liver
Il museo dei sogni di Federica è una "casa-promemoria" in cui pareti, soffitti e pavimenti sono tappezzati di parole raggruppate ordinatamente per sinonimia, per ricordare che spesso parlare la stessa lingua non è presupposto sufficiente a capirsi.
Dicesi museo (e lo dice il dizionario) una raccolta di opere d’arte, o di oggetti di interesse storico-scientifico, etno-antropologico e culturale, e l’edificio destinato a ospitarli, conservarli e valorizzarli per la fruizione pubblica, spesso con apposito corredo didattico.
Figli delle collezioni private (e, anche qui, a dirlo, è la storia), non sarebbe un’assoluta novità allestirne in casa propria, e con la ricca varietà di esposizioni oggi esistenti, potrebbe non essere facile risultare troppo innovativi pure sul fronte contenuti.
Io, tanto per fare un esempio, di collezioni ne ho parecchie, nella mia molto poco aristocratica dimora. E non parlo delle sorprese delle uova di Pasqua o delle raccolte di figurine Panini. Quanto a originalità e potenziale di attrazione, però, ci attestiamo ugualmente – credo, ma lascio a voi giudicare – su livelli discretamente bassi: pile di vestiti ordinatamente piegati sul letto, mucchi di vestiti disordinatamente scaraventati sul letto, evidenziatori sempre a una sillaba dal finire, matite troppo corte per poter essere temperate, e flaconi mai così vuoti da farsi buttare senza patire (ma sempre abbastanza da costringermi a iniziarne di nuovi).
Certo, primo fra tutti, probabilmente, si porrebbe il problema della fruibilità, dal momento che mia madre tollera così poco questo mio hobby (altresì detto «Grave Insofferenza Alle Fini Pure Quella Di Una Inanimata Penna Scarica» e spesso ingiustamente scambiato per pigrizia o semplice disorganizzazione) da fare di tutto per tenerne nascosti i pregiatissimi frutti: tipo Rapunzel nella torre, per capirci, solo che in questo caso non li vuole sotto gli occhi neanche lei.
L’aspetto creativo, tra l’altro, credo si limiterebbe a targhette esplicative e descrizioni varie; quelle che, nei peggiori incubi di mia madre, accompagnerebbero le diverse serie. Infine, dubito verrebbe in alcun modo rispettato quel principio, almeno parzialmente didattico, posto alle fondamenta di qualsivoglia istituzione museale.
Perciò, con buona pace di mia madre, e mia di conseguenza, potrei meditare di allestire tutt’altro. Qualcosa che non preveda la conservazione ostinata e patologica di oggetti, ad esempio. Qualcosa tipo un museo dei sinonimi. Vero è che se tappezzassi pareti, soffitti e pavimenti di parole, mia madre potrebbe comunque avere un tantino da ridire. Ma, con le parole giuste, forse in questo caso potrei convincerla.
Peccato, però, che darle a priori per «giuste», queste parole, non è il modo migliore di porle. Magari esatte? Mmm… Nemmeno. Adeguate, appropriate, opportune? Insomma, credo di aver reso l’idea. E, se così non fosse, la spiego meglio. Prendiamo le incomprensioni: cosa sono, in fondo, se non dei cortocircuiti dovuti a modi diversi, e talvolta poco universalmente intelligibili, di dire, fare, pensare e sentire le cose?
E proprio a questo servono le parole ordinatamente sparse per la mia casa-museo (dove ordine sta, nello specifico, per «raggruppamento per sinonimia»): a ricordare, a chiunque voglia far loro visita, che spesso, parlare la stessa lingua non è presupposto sufficiente a capirsi, e che esiste più che un sol modo di dire «normale», «sbagliato», «efficiente» e «amore».
Una casa-promemoria, in effetti, più che una casa-museo: perché, pure vivendo tra le stesse mura, può succedere di scordarsi di parecchie parole. Non più o meno giuste, per carità, solo di più che l’unica che abbiamo sul dizionario.
“Le parole ordinatamente sparse nella mia casa-museo mi aiutano a capire”
– Federica Margherita Corpina