di Oriana Gullone, B.Liver
«Tlon è un progetto di ricerca e divulgazione culturale e filosofica ideato da Maura Gancitano e Andrea Colamedici. Un progetto di divulgazione culturale che si manifesta attraverso una factory culturale, una casa editrice, due librerie e un’attività di divulgazione, mescolando cultura alta e bassa, analizzando bisogni e significati del nostro tempo e mettendo in connessione l’ambiente accademico con il mondo pop. Ed è, stando a un racconto di J. L. Borges da cui abbiamo preso il nostro nome, un pianeta immaginario».
«Tlon è un laboratorio di riflessioni e contaminazioni. Non aver paura di sentirsi stupidi. Coltivare l’ingenuità»
Con Maura Gancitano siamo quasi coetanee. Non so se la risonanza che sento con lei, e col lavoro di Tlon dipenda da questo. Forse anche. Ma forse non solo.
Le tre frasi che ho messo a introduzione sono tre folgorazioni che ho trascritto per come le ho ascoltate nel TEDx di Maura, a Genova due anni fa. La descrizione di Tlon, il progetto fondato da lei e da suo marito, Andrea Colamedici, è quella ufficiale che si trova sul sito. Non avrei avuto parole migliori o più complete per introdurre quest’intervista.
Il consiglio è seguirli, leggerli, conoscerli. Tanti meccanismi nella nostra società sono ormai tossici e anacronistici: il merito, la produttività, la performance, la competizione.
La pandemia da Covid 19 avrebbe potuto essere un’occasione per iniziare a smantellarli, sia dall’alto che dal basso. Maura e Andrea riescono ancora a farmi sperare che non sia troppo tardi per farlo, ma dobbiamo metterci in gioco, tutti, insieme.
Che rapporto ha con la parola «merito»?
«È una parola che mi disturba. Si basa sull’idea che possano esserci dei criteri oggettivi per selezionare le persone. Criteri che non tengono conto della singola particolarità, basati su standard di produttività, più che sul vissuto personale. In più, ormai abbiamo le prove che spesso il merito non fa che confermare dei privilegi di partenza di natura economica, sociale o fisica, creando un’accessibilità completamente diversa tra le persone. Mi disturba anche per un altro lato, un po’ distopico se vuoi. Il merito vede la società come un insieme di individui, non esiste un corpo sociale, una collettività. Siamo tutti individui separati che devono concorrere uno contro l’altro , dimostrando di meritarsi tutto… Spesso quelli che pensiamo come “premi al merito”, dovrebbero essere dei diritti».
Quindi, con quale o quali parole vorrebbe sostituirlo?
«Una sola parola è difficile, forse non esiste. Quello che manca spesso nelle teorie su come distribuire le possibilità, è l’incontro con le persone. Per esempio, si parla spesso dei concorsi pubblici, di quanto sempre meno persone si presentino per i posti in Pubblica Amministrazione, senza considerare la possibilità di cambiare i criteri e le modalità di selezione. Considerare le diversità, che le persone non sono tutte uguali e tante, in una società così modellata, non vengono viste e riconosciute. In un Paese di milioni di abitanti, sembra impossibile pensare a una selezione diretta uno a uno, ma si potrebbe provare a cercare delle alternative in questa direzione».
Una resistenza al cambiamento…
Pensa che ci sia un fattore anche generazionale nella difficoltà a cambiare queste modalità?
«Sicuramente sì. L’idea del merito si diffonde in particolare negli anni Ottanta, coinvolgendo in pieno la generazione dei cosiddetti Boomer, che è la prima alla quale è stato detto che “se ti mpegni, ce la farai e otterrai tutto ciò che vuoi”. Molte persone, non tutte, nate in quel periodo di boom economico, hanno sperimentato con successo questa visione, il metodo funzionava e ha davvero permesso loro di migliorare la propria situazione socio-economica. Oggi bisogna riconoscere che quella possibilità non c’è, le disuguaglianze sono, anzi, aumentate. La promessa che cambiare la propria condizione di partenza attraverso il lavoro e l’impegno fosse realmente possibile, ha funzionato per un periodo molto più breve di quanto si creda. Per chi quel periodo l’ha vissuto, considerare che non funziona più così, oggi meno che mai, può essere molto difficile».
Le vengono in mente libri, film, podcast o altro che, rivolgendosi alla generazione Boomer, potrebbero innescare questa presa di coscienza?
«Dopo che è uscito Ma chi me lo fa fare? – Come il lavoro ci ha illuso. La fine dell’incantesimo, (l’ultimo libro di Gancitano e Colamedici, sull’illusione della meritocrazione e il mondo del lavoro di oggi, NdA), avevamo molta paura che, alle presentazioni, si alzasse sempre qualcuno a dire che: “sono i giovani d’oggi a non aver più voglia di lavorare”. Un po’ è successo, ma secondo me, specialmente negli ultimi mesi, alcune idee hanno davvero iniziato a scricchiolare. Un po’ perché i Boomer hanno figli e nipoti giovani dei quali vedono le difficoltà, un po’ perché nell’opinione pubblica sta arrivando l’idea che il lavoro, per come è attualmente, sia insostenibile e abbia bisogno di una revisione, che la pressione sulla salute mentale, fin dalla scuola, sia enorme e che alla competizione si è costretti. Si sta palesando anche il senso di precarietà dato dalla caduta del paradigma dell’impegno: impegnarsi tanto non vuol più dire raggiungere la vetta, e addirittura quel tanto lavoro non arriva ad essere abbastanza per sopravvivere. Continua ad esserci chi vede i giovani come fannulloni che non hanno voglia di impegnarsi nonostante abbiano tutto a portata di mano e pensa “ai loro tempi” fosse tutto più difficile. Con chi ancora ragiona così ci sono due vie: una è basarsi sui tanti dati che raccontano una realtà molto complicata, per esempio, sul rapporto tra stipendi medi e possibilità di sopravvivenza; l’altra sono le storie. Entrambe hanno criticità: i dati puoi ignorarli se non sono coerenti con la tua visione. Le storie possono essere lette come eccezioni, puoi empatizzare con una persona che ha difficoltà, ma è difficile rendersi conto che quella situazione è comune a molti. In quest’ultimo caso, è grande la responsabilità del giornalismo, secondo me. Per molto tempo si è cercato di raccontare le eccezionalità, piano piano ci si rende conto di quanto quei racconti non restituiscano la misura della realtà».
Ha tirato fuori un tema grande, che tocca personalmente noi B.Liver. Il racconto dell’eccezionale riguarda spesso malattie e disabilità, che diventano anch’esse questioni di merito. Se «lotti come un guerriero e superi i tuoi limiti» te lo guadagni, e con esso la visibilità, altrimenti sparisci e diventi invisibile. Come possiamo scardinare questo meccanismo narrativo?
«Se hai una disabilità diventi subito un’ispirazione, attivando l’inspiration porn, se no provochi pietà; fuori da questi due opposti, non esisti. Secondo me serve moltiplicare le storie, mostrare quanto può essere diversa una stessa situazione. Spesso si demonizzano, ma le etichette aiutano: riconoscersi in una di queste non significa uniformarsi, ma trovare una chiave per raccontare la propria storia; aggiungerne diverse può aiutare a raccontare le proprie diversità, la propria complessità. Abbiamo ancora un’idea ottocentesca della normalità, come distribuzione nella maggioranza della popolazione di certe caratteristiche. Questo si riflette nel lavoro, nella scuola nelle relazioni personali, per cui tutto quello che sfugge alla “normalità” è inadeguato. Si tratta proprio di cambiare un paradigma, non presupporre più che esista una normalità e che tutto quello che diverge sia sbagliato. Così come negli ultimi anni si sta iniziando a non presupporre più che la persona che si ha davanti sia eterosessuale, per esempio, lo stesso ragionamento può riguardare altre caratteristiche: disabilità, salute, origini, funzionamento neurologico… non possiamo dare per scontate cose solo per quello che di una persona vediamo dall’esterno. Credo che un libro sia la proposta di un dialogo con qualcuno che lo vuole leggere, ma non può essere una costrizione. L’importante è farla questa proposta, spingere a sospendere il giudizio quando il pregiudizio scatta nella testa, sforzandosi di riconoscerlo».
La promessa che cambiare la propria condizione di partenza attraverso il lavoro e l’impegno fosse realmente possibile, ha funzionato per un periodo molto più breve di quanto si creda. Per chi quel periodo l’ha vissuto, considerare che non funziona più così, oggi meno che mai, può essere molto difficile».
– Maura Gancitano