di Chiara Malinverno, B.Liver
Già primario di psichiatria presso l’Ospedale Maggiore di Novara, Eugenio Borgna è uno dei primi psichiatri ad aver compreso la necessità di porsi in ascolto dei pazienti e dei loro bisogni. Con il Bullone, dove ormai è di casa, parla di visibilità e invisibilità.
Il prossimo 20 ottobre prenderà il via l’Invisibile Festival, una rassegna di eventi volta a «rendere visibili tutte quelle esperienze umane che la società rende invisibili». Se volessimo dare una definizione di invisibilità delle esperienze umane, cosa ci suggerirebbe?
«Le esperienze umane sono visibili, o invisibili, nella misura in cui si possono, o non si possono, riconoscere nella loro significazione sociale e umana. Quando si parla di visibile e di invisibile è, infatti, necessario distinguerne la dimensione psicologica e quella sociologica.
Se guardiamo al modo di comportarsi di una persona, ne cogliamo l’aspetto esteriore, quello visibile, che ha significati interiori molto diversi. La sofferenza di una persona in ogni età della vita può essere visibile, o invisibile. Solo un colloquio e un ascolto, che sappiano metterci in relazione gli uni con gli altri, ci consentono di portare alla luce e di rendere visibili le sofferenze e la disperazione altrui, ma anche le speranze che vivono nel cuore di una persona.
Ciascuno di noi, quando sta male, è consapevole della natura della sofferenza che è in noi e che può essere visibile o invisibile agli altri. Sono le premesse teoriche a un discorso su visibile e invisibile».
Durante la sua carriera lei è venuto in contatto con numerosi e diversi spaccati sociali. È riuscito a comprendere perché la società tende a rendere alcune persone sempre più invisibili, mentre altre sempre più visibili?
«La società di oggi è sempre più incline a dare valore alle apparenze, alle forme esteriori di vita delle persone, ignorando la loro interiorità, le loro esperienze e le loro sofferenze. Si tende a rifiutare ogni traccia di sofferenza e si è orientati alla ricerca continua di benessere, alla fuga dalle persone, anziane in particolare.
Siamo immersi in un clima di indifferenza e di aggressività senza fine e muore in noi ogni gentilezza. Come diceva Giacomo Leopardi, “non si può vivere senza speranza, ma anche senza gentilezza“. La gentilezza è considerata un’esperienza di vita inutile e banale, che non serve a nulla e che non ci rende visibili, ma non è così. La gentilezza è un ponte che ci mette in relazione e in comunicazione gli uni con gli altri e che ci rende visibili gli uni agli altri».
Chi decreta l’invisibilità o la visibilità di una persona?
«Direi che è senz’altro la società. È l’insieme dei modi di vivere del mondo di oggi a condizionare la visibilità, o l’invisibilità, delle persone con cui siamo in relazione nella nostra vita. Sono visibili le persone, che hanno rilevanza sociale o politica, e sono alla ribalta sui giornali, o alla televisione, ma lo siamo anche noi, che abbiamo un lavoro e una casa.
Sono invisibili le persone povere, le persone che non hanno potere, le persone sole e anziane. Sono invisibili le persone che giungono da Paesi lontani, e che non hanno nemmeno una casa, in cui vivere con dignità. Sono cose che scrivo con dolore, ma che sento inadeguate alla realtà bruciante di quello che avviene in persone che si fanno invisibili anche in una piccola città, come è quella in cui abito, e in cui tutti si conoscono.
E le persone invisibili non sono così frequenti. L’invisibilità è un’esperienza di cui si fatica a parlare, ma è la più idonea a definire la condizione di inumana sofferenza che si ha quando si diviene invisibili».
Cosa dire a una persona che sia divenuta invisibile, ma che continua ad avere il desiderio e la speranza di essere accolta con attenzione e con amore?
«Queste sono emozioni che continuano ad essere vissute con lacerante nostalgia anche da persone socialmente invisibili. Quando incontriamo queste persone, e le incontriamo soprattutto in strada, un luogo di insostenibile isolamento, guardiamole negli occhi.
Sembra scontato, ma non tutti guardano negli occhi per il timore che con gli occhi ci sia chiesto qualcosa. Non esitiamo, poi, almeno a donare loro un sorriso che, come diceva Giacomo Leopardi, aggiunge un filo alla tela brevissima della vita anche quando siamo disperati, e lo sono le persone che diciamo invisibili. Cose che non bastano, ma che alleviano per un attimo la loro solitudine».
Per oltre sessant’anni lei ha lavorato accanto ad alcune delle persone più invisibili della società: i malati psichiatrici. I malati che ieri erano invisibili stanno pian piano diventando visibili?
«Le persone con problemi psichici non sono più isolate. La sensibilità e l’accoglienza delle pazienti e dei pazienti sono profondamente cresciute. Si accoglie un invito a farsi visitare da uno psichiatra, o da una psichiatra, senza che ci siano ansie e timori. Questo è il segno del cambiamento radicale che, dopo la chiusura dei manicomi, è avvenuto nell’atteggiamento che si ha oggi e, quindi, nella percezione sociale e psicologica della sofferenza psichica.
La significazione umana, la dignità, la sensibilità e talora la creatività, che fanno parte della sofferenza psichica, sono modi di essere della follia che, prima della legge Basaglia del 1978, erano nascosti e invisibili; rinascendo ora in una nuova palpitante visibilità».

Del resto, molti di noi pensano di essere considerati normali, ma invece… non lo sono. Che ne pensa?
«Definire la normalità non è facile e, forse, non è possibile. Quello che si considera normale in un contesto sociale, può non esserlo in un contesto sociale diverso. Quello che la psichiatria può dire del problema della normalità è questo: non c’è malattia se non sono presenti alcuni sintomi emblematici, come i deliri e le allucinazioni.
La sola presenza di stati d’animo, come la tristezza, l’ansia, la malinconia, non basta perché si parli di malattia e di anormalità. Solo ascoltando una paziente, o un paziente, ricostruendone la storia della vita, è possibile riconoscere la presenza, o meno, di una malattia psichica.
Solo un medico, e in particolare una psichiatra, può valutare se tristezza, ansia o malinconia siano di natura patologica, o se invece siano esperienze che fanno parte della vita. Smettiamola di fare diagnosi di anormalità psichica se in noi ci sono gli stati d’animo che ho indicato prima e che solo apparentemente sono sintomi di malattia. Sono invece segni di grande sensibilità umana, che ci consente di capire il senso e il valore che dovremmo dare alla vita. La normalità psichica, se vogliamo definirla così, è questa, e vorrei che queste mie parole non morissero subito, ma che fossero ricordate, quando si sente parlare di anormalità psichica».
Fino ad ora abbiamo parlato di società, ma, se ci pensiamo bene, la società non siamo altro che noi stessi. Quale deve essere il nostro impegno perché sempre più persone escano dall’invisibilità?
«Il nostro impegno nel rendere visibili le persone non può non indirizzarsi all’ascoltarle, al fare attenzione ai loro desideri, alle loro attese, alle loro speranze e al loro bisogno di aiuto non solo psicologico, ma anche economico, liberandole da queste ansie e da queste preoccupazioni. Così, consentiamo alle persone invisibili di ritrovare una loro autonomia e una loro indipendenza, non solo economica, ma anche una loro dignità apparentemente, ma solo apparentemente, perduta».
Far uscire le persone dalla loro invisibilità significa, dunque, riscoprire la loro dignità?
«Sì, una definizione alternativa a quella di visibile ed invisibile, direi che sia quella di dignità. Ridare la dignità a una persona, ridare l’autonomia e gli orizzonti di senso, la libertà di fare scelte, e rispettarne le decisioni, significa renderla visibile e creativa, consentendole di uscire dall’invisibilità che la esclude dalle relazioni umane, immergendola nella solitudine che è uno degli aspetti dell’ invisibilità. Insomma, la mia riflessione sul tema del visibile e dell’invisibile non può non tenere presente quello che ho cercato di dire su un tema di questa importanza umana e sociale».
La fragilità umana incide sull’invisibilità?
«La fragilità è abitualmente considerata un’esperienza di vita della quale ci si vergogna non volendone parlare, come se fosse una malattia psichica. Non lo è, e dovremmo essere chiamati a riconoscere e a rispettare la fragilità che si nasconde nelle sensibilità ferite dalla timidezza e dallo smarrimento, dal dolore dell’anima e dal silenzio. Sono umane fragilità che ci passano accanto nella vita di ogni giorno e che vivono segrete nel cuore delle persone.
La fragilità è la nemica mortale della violenza, e ci dovrebbe insegnare a guardare dentro di noi, a seguire il cammino che porta all’ interiorità, nella quale, come diceva sant’Agostino, abita la verità. Ma la fragilità ci insegna anche a dare importanza alle cose essenziali della vita. Ogni giorno dovremmo essere in dialogo con le fragilità nostre e degli altri, mai dimenticando che le persone fragili sono quelle che più hanno bisogno di aiuto, e di comprensione».
“La sofferenza di una persona in ogni età della vita può essere visibile, o invisibile. Solo un colloquio e un ascolto, che sappiano metterci in relazione gli uni con gli altri, ci consentono di portare alla luce e di rendere visibili le sofferenze e la disperazione altrui“
– Eugenio Borgna
