di Fiamma C. Invernizzi, B.Liver
Fiamma ha potuto vedere il Santuario di Greggio, un monumento storico aggrappato agli strapiombi, nonchè il posto dove Francesco (non ancora Santo) mise in scena il primo presepe della storia. Ma il Santuario è solo un espediente per raccontare come il Natale dovrebbe essere: spoglio di luci a led, pieno di luce dal cuore.
Svoltato l’ultimo tornante, lo sguardo rivolto all’insù, tra le ultime fronde dei lecci, ecco che compare: il Santuario di Greccio. A chi un po’ l’occhio se lo è già fatto ammirando altri eremi francescani, questo non parrà particolarmente differente: arroccato su un costone angusto dell’Appennino umbro-laziale, pare restare appeso con le unghie e con i denti alle radici della foresta, alla roccia a strapiombo e a una selvaggia voglia di presentarsi d’improvviso come un luogo accogliente per i pellegrini stanchi del viaggio.
Il Santuario di Greccio e il primo presepe
La peculiarità di questo luogo, però, è data dal cuore dello stesso: una piccola, modestissima grotta in cui, secondo la tradizione, Francesco – non ancora santo – avrebbe, per la prima volta nella storia della cristianità, messo in scena la rappresentazione della Natività. Era il 24 dicembre del 1223.
A quella piccola, modestissima grotta – successivamente impreziosita da un affresco di scuola giottesca attribuito ad un anonimo maestro di Narni del 1409 – si sono per necessità aggiunti, nel tempo, spazi di preghiera e vita collettiva, così come un dormitorio, alcune celle eremitiche, cappelle e una chiesa moderna realizzata nel 1959.
800 anni dopo il primo presepe
Ora, a 800 anni di distanza, vorrei che – giocando con l’immaginazione – all’elegante stratificazione storica di edifici, vi si aggiungesse la patina culturale e consumistica dell’immagine natalizia. Cosa accadrebbe se provassimo a vestire quelle murature di vistose paillettes, se aprissimo un temporary shop di gadget davanti all’ingresso, se addobbassimo ogni colmo con un’ intermittente striscia di LED?
Forse qualcuno urlerebbe allo scandalo, forse nessuno se ne curerebbe, liquidando la faccenda con un «ovunque è così, dai, è normale, forse qualcuno farebbe una foto, la caricherebbe su Instagram e la condirebbe con la caption «#Merryxmas da #Greccio, dove San Francesco ha fatto il primo #Presepe».
La stessa cosa potremmo immaginare che accada con i più preziosi borghi italiani, con i più suggestivi monumenti storici, trasformandoci in falene che guardano estasiate le lucine sopra le nostre teste, svolazzando alla rinfusa da una vetrina all’altra, correndo più rapidi dei furgoni delle consegne e più inebetiti degli ingranaggi di un motore che sta per andare fuori giri. Lo diceva Bukowski, prima di me: «È Natale da fine ottobre. Le lucette si accendono sempre prima, mentre le persone sono sempre più intermittenti. Io vorrei un Dicembre a luci spente e con le persone accese».
Non solo Bukowski: con lui anche Dino Buzzati che, in Milano nostra immagina un dialogo tra il bue e l’asinello storditi dal vociare a cui improvvisamente si trovavano costretti ad assistere nel cuore meneghino, in cui «per le strade nei negozi negli uffici nelle fabbriche uomini e donne parlavano fitto fitto scambiandosi come automi delle monotone formule buon Natale auguri auguri a lei grazie altrettanto auguri buon Natale».
Come se, di Natale, ce ne fosse troppo. Come se, al Natale, si fossero aggiunti altri mille Natali, fin troppo sfavillanti, abbondanti, chiassosi e strabordanti. Come se, del Natale, per qualche tempo ci fossimo dimenticati di mettere gli esseri umani al centro perché distratti dagli oggetti, dagli artefatti, dai prodotti, dai capi, dagli articoli. Dalla roba, a detta di Verga.
Questo Natale vorrei un’illuminazione umana
Dunque, questo Natale, se posso dire la mia, vorrei che si avvicinasse – per umanità, intendo, e non per religione – a quello celebrato otto secoli fa nelle valli laziali, perdendo almeno qualcuna di quelle cinquantamila luci LED che vestono, per esempio, l’albero di Natale del Rockefeller Center di New York. Non per lasciare più al buio una delle metropoli più sfavillanti del pianeta, ovvio, ma per ritrovare una nuova tipologia di illuminazione, molto più potente di qualsiasi lampadina: quella umana.
Vorrei anche che, quella luce di sguardi e sorrisi sinceri, potesse far brillare perfino la solitudine che tanto bene Angelo Morbelli rappresenta nel 1903 nel Natale dei rimasti, trasformando quella triste e contemporanea diapositiva in un quadro che, i quattro anziani sconsolati e chiusi in una casa di riposo, li circonda di affetti, tenerezza e semplicità. Persone.
Un Natale dei Presenti, insomma, un Natale dei Gesti, un Natale dei Pensieri Attivi, Creativi, che rimbalzano tra i bicchieri del servizio buono e i centritavola della nonna, trasformando le memorie in storie da raccontare ancora e ancora. Un Natale di regali semplici, per ricordare le cose davvero importanti.
Un venticinque dicembre in cui dimenticare a casa il telefono per godersi chi c’è intorno alla tavola, per poi uscire a cercare chi ci è mancato, per poi ringraziarlo con un regalo di abbracci e risate, per poi passeggiare nel freddo mandando un pensiero a chi ha passato il Natale con noi guardandoci da sopra le nuvole. Non dirò nulla di nuovo chiedendo un Natale più umano, ma perché no?
Repetita iuvant, dicevano i latini.
“Un Natale dei Presenti, insomma, un Natale dei Gesti, un Natale dei Pensieri Attivi, Creativi.”
– Fiamma C. Invernizzi