di Federica Margherita Corpina, B.Liver
La B.Liver Federica, per questo numero del Bullone, ha deciso di scrivere una lettera al suo babbo, che in tempi migliori si travestiva da Babbo Natale per esaudire i suoi desideri. Ma ora Federica è cresciuta, e affida a questa lettera tutti i dolori invisibili di cui è stato testimone impotente.
Caro babbo, caro papà
Caro babbo.
Sì, babbo, pure se qui sei sempre e solo papà. Al massimo papino, al momento di chiederti un favore, o papaorso, ai tempi migliori. Ti so preciso, e perciò ti avverto sin da subito che non sarà necessario, in virtù di un bizzarro principio di coerenza, spirantizzare ogni occlusiva sorda fino all’ultima consonante di questo scritto.
Qui «babbo», infatti, sta più per la prima metà di quello maiuscolo, che per il papà di Pinocchio. Non che tu non ricopra nei miei riguardi il suo stesso ruolo, ma ha poco a che fare con il pretesto della presente. Ti ho scritto altre lettere chiamandoti con questo nome, non so se le conservi ancora. Col nome completo, a dire il vero, una ogni anno fino a un’età imbarazzante.
Allora non sapevo fossi tu a fartene carico, pure se senza barba, senza slitta, e con qualche chilo in meno. E, tutto sommato, poteva anche sembrare facile: esprimevo desideri chiari, spesso nella forma di un qualche giocattolo, e depositarne almeno uno della lista sotto il finto albero, badando a non far saltare la copertura del mago vero, non doveva poi essere così faticoso.
Non più che ricevere richieste ambigue e meno immediate da assolvere, vedere impoverirsi la resa di una risposta autentica ma materiale, non essere chiesti affatto. Siamo passati ai «caro papà», a volte anche sotto Natale, ma mai propriamente per quello; io incapace di dirti negli occhi che di giocattoli non ne volevo più, e tu alla frustrante ricerca di un modo altrettanto semplice per regalarmi altro.
Caro babbo, a un certo punto non ci siamo scritti più: è brutto smettere di credere
Finché non ci siamo scritti più. Neppure questo è farlo, inutile che stiamo qui a prenderci in giro: semplicemente, mi nasconderò da un’altra parte, tra le pagine di un giornale che so non leggerai, anzi che nella futile conversazione di un pranzo quasi insieme; e tu, che mai hai pensato fosse tuo compito farlo, altrettanto semplicemente, non chiederai. È solo in virtù di questo assunto che – io sì – mi concederò di chiederti, con la sincerità che anche il nostro silenzio ha ormai perso. La storia, d’altronde, la so solo a metà: dalla parte di quanto è brutto smettere di credere; il resto – quanto è doloroso smettere di essere creduti – posso solo provarlo a immaginare.
E, pure così, fa già altrettanto male. Ma non (me) l’hai mai detto, come ti sei sentito, e i quando, nel tempo, si sono accumulati a tal punto da rendere quasi ossessivo quanto seguirà. Non è un giocattolo, neppure stavolta, e non entrerebbe nel più azzeccato pacchetto: ho già i miei dubbi che entrerà qui. Ma è come carta lo stesso.
Come ti sei sentito quando ho smesso di mangiare?
Te l’avrei chiesto l’altro giorno, mentre passavi sereno su un «devi mangiare» che mi veniva rivolto: come ti ha fatto sentire? Come sei stato quando ho iniziato a farlo male? E quando ho scritto con convinzione a Babbo Natale di non meritare alcun regalo, o che iniziavo a dubitare della sua esistenza: tu hai letto, e hai comprato. Perché non esiste un corso che ti insegni a imitare la scrittura del topino dei denti quando, educato, ringrazia per il boccone di formaggio; ma nemmeno uno che ti istruisca su come si fa il padre quando tua figlia smette di voler giocare, e di suonare, e di mangiare, e di credere che, eroe quale sei, ti basterà lanciarla in aria e riprenderla al volo, pure con la schiena e il peso di vent’anni dopo, per farla tornare a sorridere.
E infatti, testimone impotente di dolori mai visti, hai ritrattato ogni de-posizione, nella speranza, forse, che non prenderne parte ti dispensasse dall’intollerabilità di sentirtene causa. Forse, dico. Perché, anche questo, non te l’ho mai chiesto, né tu mi hai mai concesso altra forma di accesso – non verbale magari – alle tue risposte.
A tal punto che, quando ti danno del paralitico emotivo, immagino sospettino tu proprio non ne abbia. Non ti biasimo, non per questo almeno: credo di averla ereditata da te questa cosa di costruirsi a puntino per gli altri traspirando inanimata perfezione, pure se non credo rientri tra i tuoi più espliciti vanti. E non credo nemmeno tu l’abbia fatto apposta a mettere nel pezzetto di DNA che ti spettava, tutto quello che di me ho finito per odiare. Di me. E di te. E di noi; che noi, da quando non giochiamo più, però, non siamo mai.
Mi diranno che è un verbo forte, uno di quelli a caldo; ma, se sei arrabbiato almeno la metà di quanto lo sono io, so che capirai/capiresti, ma mi dimentico che non leggerai. E mi convinco tra l’altro che è meglio così; altrimenti, magari, mi faresti notare la scorrettezza formale di una qualunque espressione e darei per morte altre mie parole.
Caro babbo, tutta questa rabbia sfumerà in indifferenza
Certo, nemmeno aspettare che tutta questa rabbia sfumi in indifferenza ci restituirà un Natale da pubblicità. Ma perdonarti il desiderio di restarmi bambina, significherebbe spiegarti da adulta come e perché sono cresciuta; e, investita della custodia di quel desiderio, non l’ho ancora fatto. Per cui, pure se non sappiamo più cosa significhi quando ci diciamo «bene», tutto ciò che posso impegnarmi a farti sapere è uno sporadico abbraccio.
Purché resti vero.
“Te l’avrei chiesto l’altro giorno, mentre passavi sereno su un «devi mangiare» che mi veniva rivolto: come ti ha fatto sentire? Come sei stato quando ho iniziato a farlo male? E quando ho scritto con convinzione a Babbo Natale di non meritare alcun regalo, o che iniziavo a dubitare della sua esistenza: tu hai letto, e hai comprato”
– Federica Margherita Corpina