Don Mazzi: “Non c’è pace senza educazione permanente, bisogna accettare la diversità”

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Don Antonio Mazzi è il creatore di Exodus, fondazione nata nel 1980 per il recupero dei ragazzi tossicodipendenti. Autore di numerosi libri sul disagio giovanile, ha da poco pubblicato "Nel nome del Padre", dove mette in discussione il rapporto tra genitori e figli. L'ha intervistato per noi Giancarlo Schiavi.
Una caricatura di Don Antonio Mazzi realizzata da Giuseppe Schiavi.
Una caricatura di Don Antonio Mazzi realizzata da Giuseppe Schiavi.

di Giangiacomo Schiavi, B.Liver

Ore 18 di un sabato italiano. Piove. Nella cascina di Parco Lambro ogni tanto suona un allarme: il fiume gonfio d’acqua sta per tracimare. Don Mazzi e i suoi ragazzi sono pronti all’evacuazione. «Succede a ogni piena, siamo abituati. Poi si riparte, la vita ricomincia…». Don Mazzi dice che è solo una piccola emergenza, le ferite della vita sono altre. Chi le ha vissute ne porta i segni, le cicatrici. Lui le conosce bene, i suoi ragazzi anche. «La vita pulsa solo in ciò che ha cicatrici. Ma il mondo moderno cerca di abolirle, anzi, le ha abolite. Ecco perché il mondo rischia di morire».

Guarire da un mondo malato con una nuova educazione

Don Antonio Mazzi, come si guarisce un mondo malato?

«Serve una nuova educazione. Dove non c’è educazione non ci può essere pace. Fare pace è una missione permanente: vuol dire mettersi in relazione con gli altri, accettare la cultura della diversità, della fragilità, della storia».

Le cicatrici sono una sofferenza, don Antonio…

«Invece ci rappresentano. Spesso le chiamiamo sfighe, ma nel tempo riassumono la nostra archeologia, la nostra storia. Le cicatrici richiedono cura, attenzione, amore. L’ amore è indispensabile per guarire, ma oggi l’amore viene cercato con delle lanterne spente».

Ci stiamo adattando, forse abbiamo perso la forza di cambiare in meglio le cose…

«Per rispondere ti giro una domanda, amico mio: è meglio essere o è meglio esistere?».

Qual è la differenza?

«Esistere è una condizione che banalizza la vita. Noi siamo fatti per essere, per far parte di un’avventura nel mondo e nella società. Essere vuol dire far parte di una storia, non accontentarsi di vivere, ma cercare di intrecciare la propria vita con quella degli altri».

Don Antonio Mazzi (Verona, 30 novembre 1929). Presbitero, educatore e attivista italiano, giornalista professionista; impegnato in attività per il recupero di tossicodipendenti, nel 1984 fonda il Gruppo Exodus. llustrazione di Chiara Bosna.

La superiorità dell’Essere

Mi viene da dire che è più facile esistere…

«E invece bisogna credere nella superiorità dell’essere sull’apparire, credere nelle passioni, nei nostri sogni. Purtroppo ci viene insegnato dalla scuola e in famiglia che dobbiamo comportarci in un certo modo, vestirci in un certo modo… Nessuno pensa alle nostre emozioni, ai sentimenti, alle sconfitte, ai desideri che vengono bruciati».

L’educazione alla vita, però, ognuno se la fa per proprio conto.

«La mia generazione ha fatto i conti con il fascismo, con la povertà e con la guerra: è stato un duro addestramento alla vita. Non è augurabile per nessuno. Ma a farci crescere poi, è stata la cultura, la speranza di migliorarsi, la relazione con gli altri, l’amore, la poesia. Oggi si cresce anagraficamente, con formulette superficiali, ignorando l’infinito che ci portiamo dentro».

C’è molto di artificiale in quello che viviamo oggi?

«Se non si è artificiali oggi si è considerati borderline. Si recita in un teatrino artificiale che lascia vuoti i cuori. Quelli liberi dagli artifici sono quelli che mi danno speranza: i bambini, i folli e gli anziani».

Per loro è più difficile arrivare a un traguardo…

«Nella vita non interessano le partenze e gli arrivi, ma le traversate. E nelle traversate ci sono le tempeste, le avversità, le sconfitte, le cadute. Se vuoi essere, e non soltanto esistere, devi reagire, saperti rialzare, ma anche dare una mano a chi è rimasto indietro».

Quelli che don Mazzi chiama gli «scartini».

«Gli “scartini” sono i miei pilastri. Nessuno deve  essere lasciato indietro. Con gli “scartini” si fanno le rivoluzioni, si rende possibile quello che tutti pensano sia impossibile. È con queste minoranze che si può scalare il cielo. Sono loro gli apostoli del nuovo».

Come i ragazzi di Exodus…

«Molti di loro li chiamavano “ragazzi senza speranza”, non avevano più credito, anche i genitori si erano arresi. L’amore, la fiducia, il sentirsi parte di un progetto li ha fatti diventare uomini».

Il cruccio dei Padri che non fanno i Padri

Ha appena scritto un libro sui padri assenti. Perché?

«È un mio vecchio cruccio: i padri che non fanno i padri. Se un padre, invece di essere l’uomo dei progetti la sera a tavola, mi parla soltanto dell’ingorgo, o delle biciclette senza luci, o si mette davanti al Grande Fratello, allora c’è poca speranza».

Ha dimenticato Internet e lo smartphone.

«Una potenza pazzesca. Ma io non sono contro. Internet bisogna usarlo e non farsi usare. Lo smartphone non può essere il padrone della nostra vita. Siamo messi male se invece di parlarci e guardarci negli occhi a tavola si chatta e si messaggia. Spesso sul nulla».

C’è un vuoto anche di pensiero.

«Questo è un luogo comune. Si dice che i giovani sono vuoti, superficiali. Non è vero. Chiedono cose che facciano pensare, vogliono essere coinvolti, sono in cerca di un ruolo. Mi piacciono i ragazzi del Bullone che mettono al centro il tema di vivere, esistere, essere. Il loro slogan è un manifesto contro la superficialità: pensare, fare, far pensare».

Da Milano può partire un progetto contro il pensiero debole che non sa ribellarsi alle guerre, alle disuguaglianze, alle ingiustizie, al conformismo?

«Se vivi a Milano non puoi esaurire la tua vita in un’incazzatura per il traffico o in un affitto troppo caro, devi batterti perché questa città sia la città della cultura, dell’amicizia, della solidarietà. E anche della pace».

L’idealità come valore da riconquistare

Milano è una città costosa, faticosa da vivere…

«I problemi esistono, certo. Ma non devono diventare il capitolo principale di una vita, del futuro di una generazione. Ai miei ragazzi dico: cercate di essere inquieti. L’ambientalismo ha risvegliato molte sensibilità, il diritto alla salute è una battaglia da vincere, dobbiamo evitare che la culla diventi una tomba. L’idealità è un valore da riconquistare».

Suggerimenti?

«Perché a scuola non portiamo il Canto dei Cantici di San Francesco insieme alla Divina Commedia? Non possiamo farci condizionare solo dalle emergenze. Bisogna avere il coraggio di alzare il livello. Milano non deve essere felice se crescono i grattacieli… Vuol dire rinunciare ad essere, accontentarsi di esistere, lasciare campo libero a chi ci vuole fare diventare dei Pinocchietti».

Chi sono i Pinocchietti?

«Dei Pinocchio alla rovescia. Quello di Collodi compie una magia: nasce burattino e diventa ragazzo. L’altro Pinocchio è quello dei bulletti, dei conformismi e dell’odio: nasce bambino e muore burattino».

Che cosa ci manca oggi?

«Ci manca gente come don Milani, capace di dare forza agli “scarti” con la cultura. Avere due lire in più cambia poco: bisogna rafforzare il sapere di chi si sente escluso».

Don Mazzi, quest’anno fanno 95. Si sente sempre un ribelle?

«Non ho mai smesso di esserlo. Tra la Chiesa e Gesù ho scelto Gesù, il più ribelle di tutti. Non mi piacciono certi teatrini artificiali, credo nell’esempio e non nell’apparenza: ho passato la vita dalla parte degli ultimi, degli sfigati, degli emarginati, quello che sono lo devo a loro. I giovani mi hanno dato speranza, forza e coraggio. I cardinali, niente: invece del bacio della pantofola, li manderei in Africa a pulire le scarpe dei poveri».

Ci pensa ogni tanto alle ingiustizie della vita? A quello che chiamiamo destino, ma forse destino non è?

«La guerra è una maledizione, Gaza, Ucraina, i bambini morti non sono un dolore innocente: ci sono dei colpevoli. Poi c’è la perdita di una persona cara, un figlio, una figlia. Si vivono come un’ingiustizia da parte di Dio. Lo capisco. Anch’io ho una cicatrice aperta: la morte di mio padre. Avevo appena tredici mesi. Non lo ricordo da vivo. Per questo ho scelto di essere padre di una moltitudine di ragazzi».

Ha paura della morte?

«Il “Capo” non mi ha ancora convocato e lo ringrazio. Ma è una concessione a tempo… Per ora sono qui, al mio posto in cascina, a Parco Lambro».

– Don Antonio Mazzi

La vita pulsa solo in ciò che ha cicatrici. Ma il mondo moderno cerca di abolirle, anzi, le ha abolite. Ecco perché il mondo rischia di morire»

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