di Cristina Procida, B.Liver
Animenta ricorda la tredicesima giornata dedicata ai disturbi del comportamento alimentare (DCA)
Il 15 marzo 2024 si è tenuta la 13esima giornata nazionale dedicata ai Disturbi del Comportamento Alimentare, fortemente voluta e istituita da Stefano Tavilla, che ha perso sua figlia Giulia il 15 marzo del 2011, mentre attendeva il suo turno per il ricovero.
DCA: l’accesso alle cure è ancora un miraggio
Quando parliamo di DCA tendiamo a sottolineare sempre quanto le cure tempestive possano aiutare a sperimentare una recovery prima che la malattia si insinui così tanto, da causare conseguenze nefaste. Ciò che è accaduto a Giulia Tavilla continua ad accadere in un silenzio assordante e sotto gli occhi ciechi delle istituzioni, ed è per questo che nei mesi e negli anni passati si è manifestato per mostrare la realtà di una malattia che non risparmia nessuno e che si spiega attraverso la società con una forza democratica, priva di discriminazioni.
La malattia non fa differenza tra i soggetti che riesce a intrappolare.
Animenta racconta storie
Ma l’associazione Animenta è nata per raccontare storie, secondo il principio di una sensibilizzazione empatica, che possano mostrare la poliedricità di questo disturbo e le varie declinazioni con cui si insinua in un soggetto. Per questo motivo, oggi racconteremo due storie nuove: quella di Federica e quella di Maria Beatrice.
Due storie di guarigione, due parametri differenti, ma con un comun denominatore: lo stesso mostro. Quando io mi ammalai di Anoressia Nervosa, una volta mia madre mi lasciò una lettera in cui mi raccontava qual era la sua battaglia. Ricordo la prima riga: «Bestia, io ti chiamo. Bestia». Faceva riferimento alla Bulimia, il Disturbo Alimentare che l’aveva accompagnata per più di 40 anni.
L’impasto della torta di Maria Beatrice
«Assaggia l’impasto della torta», così comincia Maria Beatrice, «Questo gesto potrebbe sembrare scontato per molti, una delle cose più normali che si possano fare. Invece, per chi soffre di un Disturbo Alimentare, dietro a questa piccola azione c’è un mondo. Era il 2020 quando i primi sintomi hanno iniziato a prendersi piccoli centimetri della mia vita, fino ad arrivare, nel 2021, a prendersela tutta. Il 2020 è stato un anno difficile per molti, a causa del lockdown, nel mio caso, si è aggiunta anche la morte di mia nonna: quella fu la mia prima grande perdita».
Il problema vero, però, comincia quando Maria Beatrice si rende conto che qualcun altro sta agendo all’interno della sua mente: «Le mie azioni sono dettate dal mio cervello e da pensieri totalmente estranei, e la situazione mi sfugge talmente di mano che il mio organismo inizia a mandarmi campanelli d’allarme», fino a perdere anche le ultime passioni rimaste, nel caso di Maria Beatrice, la danza.
Nel 2020/2021 i numeri per quanto riguarda i DCA sono da capogiro. Maria Beatrice è una delle migliaia di ragazze e ragazzi che si sono ammalati con l’arrivo del lockdown.
«In università le parole dei professori erano costantemente ovattate, il mio cervello aveva così fame che durante le lezioni mi imponeva di guardare video e foto di cibo, con cui in qualche modo mi “saziavo”. (…) Alternavo giorni di lezione a visite in ambulatorio: l’anoressia mi stava portando via tutto, la possibilità di laurearmi, amicizie e rapporti familiari». Perché la malattia si insinua in tutto il nucleo familiare come se fosse una ragnatela appiccicosa e labirintica, dove più ti dimeni e più rimani incastrato.
Poi, dopo tanta fatica, la guarigione: «La guarigione non è stata lineare, non è venuta sotto forma di illuminazione: è stata un lavoro. È stata la cosa più difficile che abbia mai fatto. Dall’anoressia, infatti, si può guarire, anche se inizialmente sembra impossibile».
DCA: l’esperienza di Federica
Federica, invece, ha sentito parlare di DCA a scuola: «Alle superiori ho capito cosa fossero davvero, conoscendoli per averli provati sulla mia stessa pelle e su quella di alcune delle mie più care amiche. Vedevo i cambiamenti in loro, nel corpo e nei comportamenti, vedevo quanto stavano male e faticavo ad aiutarle, perché, senza neanche rendermene conto, ho iniziato a star male anch’io». Una domanda che mi sono sempre posta quando tratto queste storie è: entrare nella tana del Bianconiglio, rischia di trascinare altri all’interno di quella ragnatela senza che se ne accorgano? «Ma non sono così grave, loro stanno peggio, loro sono state in ospedale, non lamentarti», si ripeteva Federica. Fino a rifiutare la diagnosi fatta dai curanti: «Ho iniziato ad andare da una psicologa e lei è stata il colpo di grazia. Io avevo bisogno di dare un nome a ciò che provavo e lei non mi ha mai permesso di farlo. Parlava del mio DCA con la paura di chiamarlo con il suo nome».
La diagnosi come diritto del paziente
E a questo punto è necessaria una specifica: la diagnosi è un diritto del paziente. Può essere richiesta e dev’essere restituita, anche perché, se non dai un nome a qualcosa, questa si prenderà tutti i nomi che deciderai di darle, anche quelli sbagliati. «Dal 2018 ad oggi ho avuto molti alti e bassi, ma sono i passi avanti che ho fatto a spingermi a migliorarmi ogni giorno. Ogni piccola conquista, ogni piccola cosa può essere un motore di cambiamento. (…) Ho voglia di stare meglio e so che posso farcela, nonostante le ricadute, che sono parte del percorso».
E noi vogliamo celebrare questi percorsi a ostacoli, pieni di cadute e lividi. Rincominciando, forse, proprio da lì, dall’impasto della torta: «Assaggia l’impasto della torta. Assaggialo ricordando la tua infanzia con un sorriso e con orgoglio perché sei riuscito a dire di no a quella voce dentro la tua testa che ti seguiva ogni giorno, quella voce che, ingannandoti, voleva tutt’altro che il meglio per te».
– Maria Beatrice
“La guarigione non è stata lineare, non è venuta sotto forma di illuminazione: è stata un lavoro. È stata la cosa più difficile che abbia mai fatto. Dall’anoressia, infatti, si può guarire, anche se inizialmente sembra impossibile.”