Intervista a Cristina Dell’Acqua: tra tabù e parole
A volte, per parlare delle cose di cui sembra non si possa farlo, servono solo le parole giuste. È per questo che per parlare di tabù ci siamo rivolti a chi delle parole ha cura ogni giorno, per lavoro e per amore. Cristina Dell’Acqua, laureata in Lettere Classiche all’Università degli Studi di Milano, insegna greco e latino al Collegio San Carlo ed è autrice di libri che, forti anche delle parole del passato, regalano pagine di una preziosità unica. E assai preziosi – ne siamo convinti – sono pure i paragrafi che seguono.

Il tabù, per definizione, altro non è che un divieto. Eppure, a differenza di altri tipi di proibizioni che chiamano, con la stessa malìa del frutto biblico, ad essere violate, il tabù non sembra produrre attorno a sé questo tipo di seduzione. Quantomeno in apparenza, o, se vogliamo dirla in termini un po’ più tecnici, su un piano di coscienza. Per quali ragioni? Forse per l’impersonalità – di mandante e destinatario – del “non si può/deve” con cui si esprime”? O magari per il carico di disprezzo che anche nella storia del mito travolge chi lo transige? (Mi viene in mente la figura di Edipo, l’esempio in assoluto più noto di incesto).
«Il tabù non stuzzica in noi il desiderio di infrangerlo perché è una catena, probabilmente culturale, che abbiamo dentro. Chiaro: i tabù poi sono tanti e di diverso genere, ma la difficoltà di fondo è questa. E, se mi chiedessero di disegnarlo, traccerei proprio l’immagine di una catena; una di quelle che è impossibile spezzare, se non al prezzo di una fatica – oserei dire – sovrumana. I tabù, infatti, sono anche quelli che impediscono a tanti giovani di innestare la marcia giusta, di fare quello che hanno dentro e che, o non sanno di avere, oppure tengono da qualche parte imprigionato. L’esempio di Edipo si presta sicuramente moltissimo, ma mi vengono in mente anche altri miti.
Pensiamo a Clitemnestra, la donna che uccide il marito, nonché capo della spedizione a Troia, e che con l’amante si è insediata nella sua reggia durante i suoi anni di assenza. È, questa, una figura femminile che nel tempo ha subito molto, e che a un certo punto, però, ha detto basta: insomma, ha spezzato la catena. Una donna dai maschi pensieri, la chiama Eschilo, in difficoltà anche lui nel trovare una definizione per questa creatura che osa sfidare tutti i tabù che erano stati fino a quel momento incollati su di lei. Ecco: sono tanti i tabù incollati ai ragazzi di oggi, alcuni impossibili da smuovere, altri legati a miti di famiglia. E il rischio peggiore è che mettano a repentaglio le loro vite, facendogliene vivere una che non è la loro».
Non c’è forse anche, dall’altra parte, la paura delle conseguenze che quest’atto di rottura può determinare? Clitemnestra, d’altronde, alla fine muore…
«È vero, Clitemnestra troverà la morte, così come un giovane che voglia ribellarsi a un tabù troverà un conflitto. Ma sono poi così negativi i conflitti? Il conflitto con una generazione, con un ideale che non ci sta più bene addosso. È una fase: va attraversata per potercisi affrancare, altrimenti fa presto a diventare anch’esso un tabù.
Prendiamo ad esempio un altro mito, stavolta quello di Antigone: cosa fa Emone, se non infrangere il tabù per cui è tassativo che al proprio padre – tra l’altro un re – non ci si possa opporre? Il suo discorso si apre sì con un’aperta dichiarazione di rispetto nei confronti della famiglia, ma, avviandosi verso la conclusione, il ragazzo trova il coraggio di mettere di fronte al padre una verità per lui dura da accettare: il figlio può manifestare un’idea che a lui non è accaduto di avere. La via per risolvere il conflitto, dunque, è la flessibilità, e il rifiuto di accettarla porterà Creonte a rimanere da solo in un dolore immenso».
La parola tabù, oggi, oscilla parecchio nelle sue interpretazioni: è un concetto freudiano, ma è pure un celebre gioco da tavolo, tanto per toccarne due estremi. Ciò che invece sta ad indicare, nel suo senso più comune e diffuso, è probabilmente riassumibile dall’aggettivo «innominabile». In quest’ultima accezione, però, si rivela, nei contenuti, inevitabilmente mobile: quanto e come dipende, infatti, questo «ciò di cui non si parla», dalla sua collocazione sulla linea del tempo?
«I tabù sono sì legati al momento storico – alcuni nel tempo vengono superati – come anche alle latitudini in cui si viene al mondo. A cambiare, tuttavia, sono solo i contenuti, mentre il significato rimane inalterato. È e resta un rimosso, come può esserlo un nostro insuccesso, qualcosa che ci ha provocato dolore. Eppure, nel momento in cui la vita ci mette nelle condizioni di andare a ripescarlo lì dove lo avevamo nascosto – e nominarlo, esprimerlo, definirlo –, ecco che potrebbe anche diventare un nostro punto di forza, piuttosto che rimanere un doloroso freno a mano».
Che sia una pulsione rimossa o una tematica difficile da discutere, alla fine ogni tabù, in virtù di un legiferante meccanismo di compensazione, da qualche parte, e in qualche modo, viene fuori. Come un desiderio inibito sfogherà quindi la sua carica inconscia mediante pratiche sostitutive e ossessive, così un argomento limite si ingozzerà del silenzio che gli pesa intorno fino a farsi elefante nella stanza, mutuando la tipica espressione inglese. Ma perché è importante che, a prescindere da natura e modalità, esso emerga? E può la letteratura intervenire positivamente in questo processo?
«Tantissimo. Ma andiamo con ordine. È importante che venga fuori perché nel momento in cui una cosa innominabile viene nominata assume appunto un nome, un racconto, delle gambe proprie su cui poter uscire da noi. Le cose, infatti, e così anche le parole, uscendo da noi, si rendono a noi visibili. E, non appena li visualizziamo, questi spaventosi macigni, ci sembrano forse anche meno giganteschi di quanto pensavamo. La letteratura poi, secondo me, fa tantissimo: certe pagine sono proprio istruzioni per la vita.
Come le persone, i libri a volte ci capitano, e altre ci vengono a cercare, intercettando i nostri pensieri: leggiamo pagine che sembrano scritte per noi, che sembrano parlare di noi, e anche questo è un modo per nominare, attraverso le parole, le capacità e il pensiero d’altri, cose di cui ignoravamo il nome. Non a caso è importante, come ultimo gesto della giornata prima di dormire, leggere. Anche due sole pagine, pure se siamo sfiniti, per fermarci e ri-posare, nel senso etimologico del termine. La pagina di un libro, d’altronde, è ferma: le parole non cambiano posizione se col dito le tocchi come faresti con lo schermo di un telefono. Dobbiamo nutrirci di parole che abbiano un senso, altrimenti la nostra testa farà fatica a trovarne uno».
Prendiamo in ultimo in esame l’espressione «non avere tabù», usata perlopiù come sinonimo di apertura mentale e/o rifiuto di determinati schemi e norme sociali. È una condizione reale/realistica e in qualche modo auspicabile? È anche sinonimo di libertà?
«È un augurio meraviglioso, ma difficilmente realizzabile. Ognuno di noi, in fondo, è ancorato a dei tabù, pure se non canonici (penso ad esempio a quelli sessuali). Ed essere liberi da tabù significa essere liberi da condizionamenti. Ci sono persone che lo sono di più e persone che lo sono di meno; fatico a pensare che possa esistere uno svincolamento totale.
Non direi però, che non avere tabù sia in assoluto sinonimo di libertà: ne verrebbe fuori un’immagine per cui ognuno può e fa ciò che vuole. Certo, c’è anche quel tipo di libertà: la libertà di esprimersi, di potersi muovere, vestire, lavorare. Tuttavia, garantite le libertà di base, su un livello più profondo e individuale, la libertà coincide, secondo me, con un senso di appartenenza. Puoi: puoi fare, puoi esprimerti, puoi avere relazioni, ma sai pure di avere un luogo a cui poter tornare. Altrimenti è solitudine. Non è un caso che la radice etimologica della parola, leudh, la si trovi in latino associata a parole che indicano il piacere (libido) e i figli (liberi), e in tedesco e inglese ai rispettivi “amore” (Liebe e love)».
– Cristina Dell’Acqua
“Dobbiamo nutrirci di parole che abbiano un senso, altrimenti la nostra testa farà fatica a trovarne uno“