Paola si era appena trasferita a Dublino, quando ha iniziato a non sentirsi bene
All’inizio del 2022 vivevo a Dublino e mi ero appena trasferita in una nuova casa che mi piaceva molto: compravo fiori freschi ogni settimana, iniziavo finalmente ad avere una routine e facevo i primi progetti, concerti e viaggi per la primavera e per l’estate.
A febbraio ho iniziato a non stare bene: mi sentivo sempre fiacca, avevo mal di testa e, dopo una serata in cui avevo preso troppo freddo, mi si è ingrossato un linfonodo sul collo. Non riuscivo a pensare e a lavorare e questo mi frustrava molto. All’inizio imputavo la mia stanchezza alla pigrizia, mi sentivo stupida e non capivo perché non riuscissi a concentrarmi su cose che normalmente facevo senza troppi sforzi.
Quando mi è venuta anche la febbre ho deciso di fare dei controlli a Milano, con la scusa di passare un weekend con gli amici. Le prime visite sono state inconcludenti. Un dottore attribuì la colpa allo stress accumulato; un’altra dottoressa mi disse che potevo tornare in Irlanda, che non avevo niente e che sarebbe rientrato tutto nel giro di qualche settimana.
Una risonanza e poi la brutta notizia: Paola era affetta da un linfoma di Hodgkin
Dopo un aereo di ritorno rimandato – poi mai più preso – e quasi un mese di attesa, mi hanno consigliato di fare una risonanza. Nella sala d’aspetto mi dissero soltanto: «Devi togliere tutti gli indumenti, ma puoi tenere le calze e le scarpe». Mi divertiva molto il mio aspetto in quel momento: un lungo camice bianco da cui spuntavano delle Vans bucate. Ricordo di essermi sentita in imbarazzo, non tanto per la mia tenuta o le mie scarpe, quanto per il fatto di star facendo perdere tempo ai medici. Mi aspettavo che, a un certo punto, qualcuno dicesse: «Incredibile che per una banale influenza ti abbiano fatto fare una risonanza!», o una cosa del genere. Dopotutto, era quello che mi ripetevano da mesi, chi ero io per contraddirli?
Invece, subito dopo l’esame mi hanno diagnosticato un linfoma di Hodgkin, una tipologia di tumore molto curabile (inutile dire che questa non è stata proprio una consolazione, ai tempi).
In quel momento mi sono passate in rassegna tutte le ragioni per cui questa cosa poteva essere successa. Quando ho scoperto, però, che questo tipo di tumore non ha una causa identificabile, non è ereditario né correlato allo stile di vita, mi sono sentita come se fossi stata relegata a una statistica, una casualità. La mia prima reazione è stata chiedermi perché proprio a me, ma poi questo ha contribuito a facilitare il processo di accettazione.
La seconda cosa che ho pensato è stata: com’è possibile che dopo una notizia del genere le cose possano rimanere tutte uguali? Erano i primi giorni di primavera e il mondo fuori strideva completamente con quello che stavo vivendo dentro.
Ero molto spaventata: mi trovavo in una città dove non avevo neanche una casa, lontana dal mio lavoro (a Dublino), ma anche dalla mia famiglia (a Caltanissetta). Ho dovuto tagliare i miei capelli lunghissimi perché dicevano che così ci sarebbero state molte meno possibilità di perderli. Ho visto il mio corpo trasformarsi, diventare lento e stanco e tradirmi in modi che non avrei mai immaginato. Insomma, nel giro di un paio di mesi la mia vita ha assunto forme impreviste e spaventose.
L’importanza della cura
In questo contesto assurdo, però, persone incredibili mi sono state vicine in modi che neanche credevo possibili, evidenziando quanto le pratiche di cura possano rispecchiare la complessità delle relazioni umane. Quando il caregiver tradizionale, che comunemente pensiamo sia il genitore, non è in grado di prendersi cura di te a causa di problemi di salute, distanza fisica o altre ragioni – come successo nel mio caso -, ci si ritrova spesso da soli o costretti a trasferirsi in un’altra città per ricevere cure adeguate. Questo può comportare la rinuncia al lavoro e quindi alla propria autonomia, o alla possibilità di accedere a strutture sanitarie di eccellenza.
L’importanza di avere amici di sostegno
Io ho avuto il privilegio di avere amici che a turno mi hanno fatto compagnia per le sedute di terapia, mi hanno aiutata con i traslochi, mi hanno ospitata e prestato casa, ma anche e soprattutto, con cui sono stata capace di condividere un sacco di gioia e amore, belle letture e momenti spensierati, nonostante il periodo. Sembra pazzesco, infatti, ma in quell’anno sono successe anche tante cose belle. Un po’ come scrive Michela Murgia in Tre ciotole, di fronte al cambiamento a ognuno di noi sta la possibilità di trovare nutrimento in nuovi riti, risorse di sopravvivenza che non pensavamo di possedere.
Penso davvero che ci sia bisogno di scrivere di malattia, di cura, perché non c’è niente di straordinario o eccezionale, è un pezzo di normalità che ci accomuna molto più di quanto lo faccia la foto che si pubblica in vacanza. Troppo spesso la malattia è avvolta da un velo di vergogna, trattata come un tabù di cui non si deve parlare per non impressionare gli altri. Anch’io, per un lunghissimo periodo, ho interiorizzato questa visione.
Davanti alla vita delle persone che andava avanti, io mi sentivo bloccata in una situazione spaventosa in cui mi ero trovata all’improvviso, incapace di pensare ad altro, se non a tutte le opportunità che stavo perdendo in quel momento. A un certo punto, non so nemmeno quando esattamente, forse in uno di quei giorni di frustrazione in cui non riuscivo a pensare chiaramente o a lavorare come avrei voluto, ho accettato che fermarsi è normale, così come lo è «essere improduttivi». Sentirsi in colpa, invece, è un risultato del sistema in cui viviamo e dobbiamo fare un costante esercizio per liberarci da questa mentalità.
L’importanza di parlare di malattia
Parlare di malattia non riguarda solo la sfera fisica, ma si estende anche alla dimensione sociale e relazionale ed è importante anche per ribadire come nella società dell’incuria, le amicizie e i rapporti umani significativi siano un vero e proprio atto rivoluzionario che richiede una costante sfida alle mentalità patriarcali e individualiste.
L’amicizia, intesa come la vita quotidiana condivisa e prendersi cura di sé e degli altri, è cruciale per la sopravvivenza di tutte e tutti. Essere amici o prendersi cura di qualcuno in questo senso, significa che quando tutto il resto fallisce abbiamo meccanismi di responsabilità reciproca che ci tengono a galla.
– Paola Asja Butera
“Ho dovuto tagliare i miei capelli lunghissimi perché dicevano che così ci sarebbero state molte meno possibilità di perderli. Ho visto il mio corpo trasformarsi, diventare lento e stanco e tradirmi in modi che non avrei mai immaginato. Insomma, nel giro di un paio di mesi la mia vita ha assunto forme impreviste e spaventose.”