Intervista a Francesco Battistini, inviato di guerra nel 1992 a Sarajevo

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La B.Liver Iris ha intervistato Francesco Battistini, inviato di guerra per la prima volta a Sarajevo nel 1992. In seguito ha seguito e raccontato molti conflitti e parla dei pro e contro del suo lavoro.
Una foto di Sarajevo durante il conflitto del 1992.
Una foto di Sarajevo durante il conflitto del 1992.

Intervista a Francesco Battistini, inviato di guerra

Chiediamo all’inviato di guerra del Corriere della Sera, Francesco Battistini, qual è stato il suo primo articolo al fronte.

Sopra Francesco Battistini.

Partiamo dalla sua storia: com’è diventato cronista di guerra?

«Ho iniziato a lavorare come cronista per L’Eco di Bergamo, mi occupavo di cronaca “bianca”, “nera” e giudiziaria. Sono stato anche correttore di bozze. Come primo servizio ho riscritto un pezzo su un concorso internazionale di fisarmonica. Iniziai così la mia carriera. Ho iniziato ad occuparmi della politica italiana seguendo importanti casi di attualità, come quello di Michele Sindona e il rapimento di Cesare Casella. Sono quindi arrivato alla redazione di Giancarlo Perego ossia al Corriere della Sera. Poi però, un giorno un sacerdote di Lecco mi ha chiesto di seguirlo a Sarajevo: era il 1992, periodo in cui la città era sotto assedio. Il prete organizzò un intervento con alcuni volontari e decisi di seguirlo. Arrivammo così a Spalato (attuale Croazia) e poi a Mostar per entrare a Sarajevo. Attraversammo un tunnel alto poco più di mezzo metro che ci avrebbe condotto alle porte della città. Ho iniziato così a scrivere per Ettore Mo, ex inviato speciale del Corriere, i pezzi per documentare quello che stava accadendo».

È stato un colpo di fulmine? Come ha capito che quella era la sua strada?

«All’inizio ero un po’ perplesso. Nel giornalismo però, quando cominci a occuparti di qualcosa, questa ti appassiona. Sicuramente l’inviato di guerra è un lavoro differente rispetto a quello del cronista, anche se gli obiettivi sono sempre gli stessi: raccontare, andare a vedere. Nelle guerre però, le parole sono estreme, che si tratti di emozioni o di eventi legati alla situazione che si sta vivendo. L’inviato di guerra è un lavoro più immediato e richiede un altro tipo di approccio. La cura delle fonti deve essere particolarmente attenta».

Lei è stato inviato di guerra in situazioni molto diverse, come Sarajevo, Cuba, Afghanistan, Iraq, Kashmir, quale l’ha colpita maggiormente?

«Dal punto di vista della pericolosità, è stato l’Iraq. Sembrava di essere nella terra di nessuno. Si viveva un forte stress, per esempio, quando eravamo confinati nell’hotel Palestine di Baghdad tre giornalisti che stavano al piano superiore al mio erano morti a causa di un bombardamento. Emotivamente però, mi ha colpito di più Cuba. I cubani non erano convinti delle ragioni della visita di noi inviati, motivo per cui avevamo paura che ci volessero trattenere lì per molto».

Com’è cambiato il ruolo del cronista?

«È cambiato in peggio. Oggi il giornalismo è nelle mani di tutti, a causa della presenza dei social. Per questo occorre smontare ciò che è stato costruito, come le fake news o le bufale, e ciò porta via molto tempo. Un importante aspetto che sta emergendo, inoltre, è la rapidità. Bisogna sempre aggiornare le fonti, social, siti web, podcast, il lavoro si è trasformato sempre più in un montaggio».

Lei è padre? Come si fa a conciliare il ruolo lavorativo con quello di genitore?

«Non si concilia, soprattutto quando i figli sono piccoli. È necessario staccarsi dalla realtà che si è appena lasciata e concentrarsi nell’altra. Ovviamente, c’è un prezzo da pagare. La famiglia sente la mia assenza aggravata anche dalla preoccupazione per la mia incolumità. Molti sono infatti i giornalisti morti sul campo. I miei figli però, sono abituati e crescendo hanno iniziato ad interessarsi ai conflitti e alle situazioni che sto seguendo. Non sempre è facile spiegar loro il lavoro che faccio».

Tornerebbe a fare questo lavoro?

«Sì, assolutamente. È il mestiere più bello del mondo. Ti fa entrare nelle vite delle persone. Percepisci così le loro emozioni, dormi, mangi, vivi con loro. Condividi storie che riesci a vedere in prima fila».

Che cosa direbbe a un giovane se volesse fare oggi il cronista di guerra… è ancora possibile?

«Innanzitutto, non bisogna pensare di diventare un cronista di guerra. È necessario partire prima dalle piccole cose, per esempio, lavorando come cronista. Bisogna prepararsi a raccontare le cose da vicino, per questo occorre essere documentati, studiare molto. Sicuramente è meglio andare dove non vanno gli altri, trovare le storie da raccontare, rimanere resistenti pur sapendo che questo non è un lavoro che paga molto. Insomma, bisogna pensarci bene prima di farlo, ci sono molti pro e contro».

– Francesco Battistini

“È necessario partire prima dalle piccole cose, per esempio, lavorando come cronista. Bisogna prepararsi a raccontare le cose da vicino, per questo occorre essere documentati, studiare molto. Sicuramente è meglio andare dove non vanno gli altri, trovare le storie da raccontare, rimanere resistenti pur sapendo che questo non è un lavoro che paga molto.”

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