Intervista a Elisabetta Rosaspina, cronista per il Corriere della Sera, che racconta la sua prima esperienza da cronista
La prime volte hanno sempre un qualcosa di autentico, portano con sé tante emozioni: l’adrenalina mista ad ansia, la paura di non essere in grado di superare la prova, che poi passa subito dopo essersi resi conto che in realtà per tutti c’è una prima volta. E dopo, ciò che ci portiamo dietro non sono le paure, ma le emozioni positive. Con Elisabetta Rosaspina, cronista che per il Corriere della Sera ha lavorato vent’anni come inviata sociale, abbiamo parlato della sua prima volta da cronista.
Come si dice spesso: la prima non si scorda mai.

Quando ha iniziato a scrivere come cronista?
«Ho iniziato nel ’79, per la cronaca de La notte, un quotidiano del pomeriggio, un giornale molto vivace. Il mio lavoro iniziava molto presto la mattina, alla ricerca delle notizie della notte. Eravamo sintonizzati alla radio della polizia, ci recavamo in questura per essere aggiornati, o dai vigili del fuoco. La vita del cronista in quei tempi era molto differente rispetto a oggi, erano disponibili meno canali d’informazione, ovviamente».
Le andrebbe di raccontarci la sua prima volta da cronista?
«Uno dei primi casi che raccontai sul quotidiano è una storia che ancora oggi porto con me, perché mi colpì tanto. Una mattina, molto presto, era stata soccorsa sulla Darsena (ai tempi un cantiere a cielo aperto) una donna che aveva appena partorito all’interno di una gru. Eravamo accorsi sul posto per poter raccogliere più informazioni. Lì avevamo scoperto che i soccorsi erano stati chiamati dai passanti che avevano sentito i vagiti del neonato; la donna aveva partorito completamene da sola senza chiedere aiuto, poi era stata trasportata in ospedale insieme al figlio.
Da tempo la donna, tossicodipendente, viveva nella gru e aveva una situazione molto difficile, infatti qualche anno prima il suo primo figlio, proprio a causa della dipendenza dalle droghe era stato affidato alla madre della donna e anche questa volta il neonato non sarebbe stato affidato lei. Andandola a trovare giorni dopo in ospedale, notai la disperazione nei suoi occhi e un forte senso di maternità verso il figlio. Nessuno si aspettava che lei potesse disintossicarsi per crescere il bambino, così venne reso idoneo dai servizi sociali per l’adozione e lei non lo rivide più. Tornai a farle visita dopo la dimissione dall’ospedale: era ritornata nella sua casa (la gru), le portai una foto del suo bambino scattata il giorno del parto. Di lei non ho avuto più notizie, fino a 5/6 anni dopo, quando lessi il suo nome tra le prime morti per AIDS a Milano».
Secondo lei quale potrebbe essere il giusto metodo per raccontare una storia e darle il giusto valore?
«Prima di tutto, come giornalisti abbiamo il compito di non etichettare e catalogare una storia. Una storia non è mai uguale all’altra, se per pigrizia mentale lo si fa, si fa torto a chi l’ha vissuta. Ovviamente bisogna ricordare che mantenere un certo distacco è fondamentale per il nostro lavoro per non farsi sovrastare dal tutto. Raccontare è importante, e lo è stato soprattutto in quegli anni, poterne parlare su un giornale segnava il fatto che quell’evento era esistito».
C’è quindi necessità di abbattere dei cliché, di andare oltre le apparenze. Noi al Bullone facciamo questo ogni giorno. Ognuno di noi è unico, proprio perché ha una storia diversa. Che consigli si sente di dare a chi vorrebbe diventare cronista?
«Di sicuro di essere autentico, immergendosi nei luoghi; essere gli occhi del lettore e immaginare di essere lì non per il giornale, ma per il lettore, perché è a lui che dobbiamo far conoscere ciò che stiamo vivendo».
– Elisabetta Rosaspina
“Come giornalisti abbiamo il compito di non etichettare e catalogare una storia. Una storia non è mai uguale all’altra, se per pigrizia mentale lo si fa, si fa torto a chi l’ha vissuta. Ovviamente bisogna ricordare che mantenere un certo distacco è fondamentale per il nostro lavoro per non farsi sovrastare dal tutto. Raccontare è importante, e lo è stato soprattutto in quegli anni, poterne parlare su un giornale segnava il fatto che quell’evento era esistito.”