Lisa intervista l’anoressia nervosa
Amo le sfide, in particolare quando sono apparentemente difficili, se non impossibili. E cosa è meglio che intervistare la malattia che mi ha intrappolata per due anni, cercando di estrapolarne informazioni utili per chi con la malattia non ci è entrato in contatto?
Da un certo punto di vista posso considerarmi interna, essendoci appena passata, ed esterna, dato che riesco a parlarne, cosa invece che chi c’è dentro non fa.
Buongiorno Anoressia Nervosa. Non posso dire che sia un piacere incontrarla, ma in questo caso si rende utile. Può presentarsi?
«Certamente. Buongiorno a tutti, mi chiamo Anoressia Nervosa, sottocategoria dei Disturbi del Comportamento Alimentare. Affamo le mie vittime di cibo, felicità, benessere e qualsiasi cosa assomigli a vita, distorcendo la realtà e l’immagine della propria persona. Prima di tutto vorrei sfatare un mito, su qualsiasi disturbo mentale: non sempre è qualcosa di evidente, e che si possa notare o meno, non definisce il malessere di una persona. Nessuno è nella testa di qualcun altro. Nel mio caso, banalmente, si viene presi in carico davvero e con serietà quando il corpo è in pericolo. A quel punto vengo reputata malattia».
Riesce a spiegarmi il suo scopo quando influenza la vita di un individuo?
«A dir la verità, non esiste un’unica risposta: dipende dalla persona, dalle sue esperienze passate. L’obiettivo comune può sembrare solo voler dimagrire. A volte di certo è così, altre volte, invece, sono tentativi in cui si insegue il desiderio di felicità. Questa emozione è descritta come qualcosa di fantastico, tanto da doverne essere degni, oppure di volersi sentire abbastanza. E quale miglior modo se non ricercare la cosiddetta perfezione? Almeno estetica».
In quale modo riesce a convincere le sue vittime? Ci sono protocolli, linee guida o aspetti comuni?
«Non è un passaggio drastico, dall’oggi al domani. Sono piccoli cambiamenti lenti e graduali… all’inizio perlomeno. Esistono sì protocolli, frutto di studi, in particolare che evidenziano il carattere di alcuni soggetti che aiutano a farmi avanzare. Non tutti sono uguali, ma in qualche modo, anche minimo, ci si ritrova dentro i binari.
Innanzitutto, la maggior parte dei soggetti affetti sono adolescenti, maschi tra il 19–30%, e femmine tra il 70% e oltre. Prendendo in considerazione il carattere, ci sono delle predisposizioni: tendenze a soffrire di ansia o depressione, quindi anche difficoltà a gestire lo stress, preoccupazione verso il futuro o paura nei confronti del mondo esterno, perfezionismo, certamente diligenza, che include volontà di autocontrollo, riservatezza forse anche eccessiva e quasi orgogliosa.
Collaboro anche con altri miei colleghi “disturbi”, come il caro vecchio “ossessivo – compulsivo”, e spesso da qualche tempo anche “borderline” della personalità. Vorrei fare un appunto, per far capire meglio il loro punto di vista: è da sottolineare che, a volte, questo senso di potere (non vi offendete, uso il femminile dato che le percentuali parlano da sole) le fa sentire forti, quindi mollano, anche di poco, la presa da un senso di debolezza e timore di tornare alla vita da cui, volenti o nolenti, sono scappate. Infine, dicono che sia anche questione di genetica».
Ha detto che, almeno nel periodo iniziale, il processo è lento, giusto? Riesce a dirci di più?
«Confermo, ribadisco quanto detto e aggiungo che molte delle mie pupille, fino a che non raggiungono fasi gravi a livello ospedaliero, rifiutano o non credono di essere ammalate, e alcune pure a quel punto non lo riconoscono. Faccio sì che le mie vittime possano paragonarsi tra loro, utilizzando il corpo dell’altra come parametro, e aggiungendoci ogni tanto anche tratti della propria persona da disprezzare. Più si odiano, più lavoro bene. Il colmo? Durante la ripresa, almeno fisica, succede che proprio le persone che stanno loro accanto facciano un commento (magari per loro è un complimento) che le fa tornare indietro. In tutto questo, la parte sana esiste, è sempre presente, anche se invisibile, ed è quella che bisogna prendere con le pinze».
Quindi è possibile guarire?
«Sì. Di sicuro la persona coinvolta ha più potere di chiunque, ma a volte basta un singolo dettaglio a spostare l’attenzione su altro. Gli esseri umani sono abitudinari e raramente cambiano prospettiva. Bisognerebbe solo aprirsi un po’ e solo provare a comunicare per dare la possibilità di entrare in contatto, anche se poco, con il proprio io e farsi aiutare. In questo i cari o gli specialisti accanto alle mie vittime hanno un ruolo fondamentale, e cioè valorizzarne gli ideali, principi e passioni, dare importanza alle poche cose che tirano fuori, per trasformarle in potere. A volte questa dinamica spaventa, a volte aiuta a far acquistare fiducia. Quando accompagno le mie pupille, faccio credere che quel dolore è loro amico, che le amo e si meritano quello dalla vita. Non lascio spiragli che aiutino a capire il contrario».
Loro possono stare bene avendoti al loro fianco?
«No, è impossibile, non le lascio vivere. Chi sta bene, chi è felice, ha l’appoggio di sé stesso e continua a guardare il mondo, affronta le novità o la quotidianità – in modo negativo o positivo che sia – con la propria visione. Io faccio esattamente il gioco opposto. Tolgo amore, e forse anche fiducia, in qualsiasi cosa che non sia dolore già provato.
È una prigione in cui la loro testa si rinchiude buttando via la chiave, quasi a non voler più permettere all’esterno di scalfirla. Sono sensibili le mie vittime, questa è la pecca; tengono dentro tutto per non disturbare, regalano senza aspettarsi niente in cambio; vogliono vedere felici le persone, che a loro volta proprio per questo sentimento di purezza le invidiano, e sempre per questo successivamente le denigrano. Rispondono alla cattiveria con gentilezza, reprimendo però i veri sentimenti. Io sono la manifestazione della loro stanchezza, e l’esplosione della loro sofferenza. Sì, paradossalmente, più si sparisce tra anima e corpo, e più si viene notati. È una novità, e in un mondo di apparenze e stereotipi, chi non si fa vedere dà spettacolo».
– Anoressia Nervosa
“Prima di tutto vorrei sfatare un mito, su qualsiasi disturbo mentale: non sempre è qualcosa di evidente, e che si possa notare o meno, non definisce il malessere di una persona. Nessuno è nella testa di qualcun altro. Nel mio caso, banalmente, si viene presi in carico davvero e con serietà quando il corpo è in pericolo. A quel punto vengo reputata malattia.”