Intervista impossibile a Franco Basaglia: “Lottare per chi ha una malattia mentale”

Autori: ,
Franco Basaglia, con Peppe Dell’Acqua, ha rivoluzionato la psichiatria in Italia, portando alla chiusura dei manicomi con la Legge 180 e sfidando resistenze accademiche. Leggi l'intervista impossibile!
Franco Basaglia illustrato da Max Ramezzana.
Franco Basaglia illustrato da Max Ramezzana.

Intervista impossibile a Franco Basaglia, riformatore della disciplina psichiatrica in Italia

Franco Basaglia (11 marzo 1924, San Polo, Venezia – 29 agosto 1980, San Polo,
Venezia), è stato uno psichiatra e neurologo italiano, innovatore nel campo della salute mentale, riformatore della disciplina psichiatrica in Italia. Considerato lo psichiatra italiano più influente del XX secolo.

È un grandissimo onore «intervistare» Franco Basaglia ed «entrare» nella sua rivoluzione della salute mentale.

Dottor Basaglia, nel 1958 lei diventa docente presso l’Università di Padova. Subisce diverse ostilità per le sue idee rivoluzionarie in netto contrasto con il periodo, perché?

«Nel 1958 mi specializzai in Malattie nervose mentali; la Psichiatria ai tempi non c’era ancora. Mi ero interessato alle parole “nuove” del dopoguerra rispetto alla filosofia, mi riferivo a ciò che si diceva della critica alla filosofia, al cosiddetto positivismo scientifico. Leggevo e scambiavo idee con alcuni amici in giro per l’Italia e qui a Padova. In seguito, con la libera docenza, incominciai ad esercitare nel reparto di Malattie nervose mentali del professor Giovanni Battista Belloni. Ero molto interessato all’incontro con i malati e lo facevo con altri giovani specializzandi, iniziando a scrivere di psicopatologia e di riflessioni sul lavoro che stavamo incominciando. In quel momento c’era un muro invalicabile: l’incomprensibilità del malato di mente, dello schizofrenico, i pregiudizi erano all’ordine del periodo. Utilizzando le modalità di approccio di quello che avevamo letto e imparato nelle filosofie del ‘900, con alcuni colleghi iniziammo a interessarci alla scommessa se fosse stato mai possibile riuscire a parlare, a comprendere quelle malattie mentali. La scommessa è stata il motore che ha dato inizio a un nuovo modo di parlare e soprattutto di agire. I miei scritti, che da una parte venivano apprezzati dal professor Belloni, dall’altra sapevano tanto di eresia rispetto alla psichiatria che si faceva ai tempi, ragione per la quale in maniera bonaria, talvolta prendendomi in giro,  il professore mi chiamava “il filosofo”».

Grazie alle sue teorie e all’esperienza messa in pratica nel manicomio di Gorizia lei ha ridato dignità a migliaia di persone. Ci racconta di quegli inizi?

«Quando si liberò il posto di direttore all’ospedale di Gorizia, il professor Belloni, trattandosi di un manicomio ai confini del mondo, mi mandò ed è stato proprio in quel luogo che per me è cominciata la storia vera. Nelle Università, di manicomio non se ne parlava, non avevamo idea di cosa fosse, delle violenze, delle regole in nome delle istituzioni. Clinica universitaria e manicomio erano mondi separati, solo nominalmente appartenevano alla stessa disciplina. Quando arrivai a Gorizia restai bloccato sulla porta del manicomio, non sarei riuscito certo ad immaginare quello che stavo vedendo: le porte chiuse, il tintinnio delle chiavi, intorno un grigiore terribile e quei “berretti” inamidati bianchi sulle teste delle infermiere che a tutto facevano pensare tranne che al candore. A quel punto, cominciai a capire che non potevo fare altro che andarmene via, perché accettando la carica da direttore, non avrei potuto fare a meno di diventare complice di quelle violenze. Entrai in crisi, interrogandomi se abbandonare oppure no, ma certe letture, le discussioni con i miei compagni, lo studio della fenomenologia, mi aiutarono a restare: capii che dovevo sospendere in qualche modo il giudizio rispetto a quello che vedevo e cercare di fare emergere la realtà bella o brutta di quel luogo. Oggi mi dico, dopo che quelle cose sono accadute, che mi è tornato utile il modo di pensare della fenomenologia, cioè la sospensione del giudizio. Come a dire che per parlare con quei “sacchi grigi”, dove non ci sono più voci, non c’è vita, non si può fare altro che mettere tra parentesi la diagnosi, la malattia, l’immagine che si vede, e tentare con costanza di avvicinarsi alla storia, ai sentimenti, alle passioni reali di quelle persone. Ecco in quel luogo ha avuto inizio il mio tutto».

Peppe dell’Acqua, psichiatra, è stato per molti anni direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste. Nel 1971 ha cominciato a lavorare con Franco Basaglia.

La legge 180 del 1978 come ha trasformato, in Italia, il sistema di cura per i malati di mente?

«Questa legge dello Stato è nata in un periodo molto delicato del nostro Paese, l’esperienza a Gorizia era stata determinante, in quanto riusciva ad indicare con chiarezza quale doveva essere la via d’uscita. Il 13 maggio del 1978 venne definitivamente approvata la legge che impose la chiusura dei manicomi e regolamentò il trattamento sanitario obbligatorio, istituendo i servizi di igiene mentale pubblici. Io non ero completamente d’accordo con tutti i comma della legge, sapevo bene di diagnosi e cure che comunque si prefiguravano in questa legge, cioè i luoghi ospedalieri, intuivo che se non ci fosse stata un’attenta valutazione e discussione, sarebbero diventati luoghi che potevano evocare il vecchio manicomio. Amministratori, politici, psichiatri dovevano capire che quella legge indicava un nuovo paradigma nella cura: il soggetto al centro, il diritto alla persona, la singolarità, ma solo molto faticosamente risulta essere così, in pratica».

Ho letto che il dottor Dell’Acqua, che ha lavorato con lei, ha scritto come da quell’incontro abbia incominciato a «Basagliare», mi spiega com’è riuscito a contagiarlo?

«Il dottor Dell’Acqua, studiava all’Università di Napoli, dove c’era il professor Vito Longo alla direzione e con altri suoi compagni avevano sentito parlare nelle assemblee, di quello che io facevo a Gorizia. Cercavano di eguagliare comportamenti che pensavano avessimo noi, tipo uscire con i malati, andare a bere un caffè. Il professore Vito Longo che era molto vigile su quelle che avrebbero dovuto essere le culture del suo dominio, del suo baronato, tutte le volte che vedeva il dottor Dell’Acqua con alcuni medici, puntava il dito e con un accento siciliano molto marcato gli diceva: “ricordatevi bene che dentro la mia clinica non si deve basagliare”. Quella è stata la spinta che ha fatto sì che il dott. Dell’Acqua venisse a lavorare con me».

Cinzia Farina, laurea in Lingue e Letterature moderne, ha frequentato l’Istituto di medicina
psicosomatica, specializzata in alimentazione, cronista del Bullone.

Quali sono stati i principali ostacoli che ha dovuto affrontare nella sua lotta per la riforma psichiatrica?

«Non ce n’è uno che non sia stato un ostacolo. I principali sono state le resistenze assolutamente incomprensibili e dure delle lobby psichiatriche e delle accademie. Mi hanno praticamente buttato fuori dalla Società Italiana di Psichiatria, comunque io non è che ci volessi restare. Mi sono interrogato su che cosa fosse la psichiatria, quali le sue radici, le certezze scientifiche e filosofiche che fanno diventare questa sedicente scienza qualcosa che ha un potere sovrumano sulla testa di milioni di persone. Sono certezze infondate che possono anche uccidere gli individui. Ho cominciato a fare, scrivere, a lavorare, sostenendo che quelle certezze non sono affatto scientifiche, sono delle falsità sostanzialmente; non sappiamo da dove venga la schizofrenia, se i matti sono pericolosi. Mi ritrovai a mettere in atto delle parole, delle azioni che mi hanno reso ovviamente un avversario delle psichiatrie correnti. Ho negato tutto il paradigma psichiatrico clinico, non certo la malattia mentale; ho contestato quel comportamento delle persone che viene assunto come paradigma di una scienza e che finisce per rendere questa scienza qualcosa che è molto più vicino all’annichilimento, all’annientamento delle persone piuttosto che alla cura».

Qual è la sua eredità nel contesto della salute mentale oggi?

«Spero di aver lasciato un modo di pensare, un nuovo paradigma scientifico della cura, continuando a rendere migliore la vita di tutte le persone che a causa della malattia mentale e di qualsiasi altra condizione di inferiorità, rischiano di vivere una situazione di assenza di diritto e dunque di annichilimento».

– Franco Basaglia

“Oggi mi dico, dopo che quelle cose sono accadute, che mi è tornato utile il modo di pensare della fenomenologia, cioè la sospensione del giudizio. Come a dire che per parlare con quei “sacchi grigi”, dove non ci sono più voci, non c’è vita, non si può fare altro che mettere tra parentesi la diagnosi, la malattia, l’immagine che si vede, e tentare con costanza di avvicinarsi alla storia, ai sentimenti, alle passioni reali di quelle persone. Ecco in quel luogo ha avuto inizio il mio tutto.”

Ti è piaciuto ciò che hai letto?

Ricevi adesso l’ultimo numero del nostro mensile “Il Bullone”, uno spazio in cui i temi cardine della nostra società vengono trattati da un punto di vista “umano” e proposti come modello di ispirazione per un mondo migliore.

Ricevi ultimo Bullone
 
 
 
 

Diffondi questa storia

Iscriviti alla nostra newsletter

Newsletter (sidebar)
 
 
 
 

Potrebbe interessarti anche:

Torna in alto