Sentirsi vivi: l’ultima notte allo studentato di Trento
L’ultima notte in camera mia, nello studentato di Trento in cui vivo da un anno, dormo su un asciugamano steso sul materasso. Il lenzuolo e la federa sono già in un’altra casa, insieme a tutti i vestiti. Quello che resta del mio ultimo anno è chiuso in quattro buste della spesa sotto alla scrivania. Sopra ci sono tutte le cose che ancora non ho messo via e le foto e i bigliettini incastrati tra la cornice della presa di corrente e il muro.
Il letto accanto al mio è sfatto: Giulia se n’è andata dieci giorni fa. Da quando è partita, piccoli grumi di polvere si sono accumulati tra il materasso e la parete, sulle mensole della sua libreria, sul suo comodino e in tutti gli angoli della stanza. Quando cammino vicino ai muri, si sollevano e poi ricadono per terra. Sul mio comodino ci sono una borraccia, il telefono, un romanzo e una bottiglia di passata di pomodoro. Le bottiglie di vetro della passata si rompono piĂ¹ di piatti, bicchieri e tazze, non possono stare nei sacchi con le altre cose. Passo una pezzetta bagnata di alcol su una mensola accanto al letto. Ăˆ la mensola a cui ho appeso il calendario dell’avvento e la pallina di Natale a forma di elfo.
Ora che è vuota, si vede il segno dello scotch. Poi avvolgo e metto via anche tutte le cose che la sera prima avevo lasciato sulla scrivania: una tazza con la scritta Merry Christmas, il bollitore e una spugnetta per i piatti. Restano, incastrati tra la presa e il muro, le foto e i bigliettini. Un post-it verde con una scritta: «Buona fortuna per gli esami, SEI BRAVISSIMA!! Ci vediamo quando torno». Un selfie mosso, scattato una sera davanti all’albero di Natale nella piazza del Duomo di Trento, insieme al mio ragazzo. Lo scontrino di una pasticceria per una fetta di sacher e quattro macaron. Un pezzo di pagina con la scritta a penna «find a place that you trust and try trusting it for a while» (trova un luogo di cui ti fidi e prova a fidarti per un po’).
Per spostare le borse, aspetto che arrivino i miei amici. Vengono da Milano per aiutarmi con il trasloco. Tre ore prima che arrivino, sono seduta in fondo al materasso, con le punte dei piedi che penzolano sul pavimento. Fuori dalla mia stanza c’è un corridoio su cui affacciano trenta porte. Vicino ad ognuna ci sono scarpe, pantofole, buste della spesa, scatoloni, ombrelli. Dall’ascensore alla porta della mia stanza ci sono dodici porte e una decina di luci al neon che si accendono se ci passi sotto. Ăˆ un corridoio che ho percorso quasi ogni domenica sera, tornata da Milano, sfilando sotto ai faretti con il mio trolley pieno di lasagne, verdure e pastasciutte di mia madre per la settimana successiva.
L’ultima volta che esco da camera mia sono con quattro amici, ognuno con una borsa e un commento sulla stanza e sullo studentato. Mentre si avviano verso l’ascensore, lungo il corridoio, resto ferma sull’uscio. Penso a mia madre che quando se ne va da una casa, la saluta sempre. A volte la ringrazia, a volte le promette che si rivedranno presto. Guardo la polvere negli angoli e le due scrivanie bianche, vuote. Sul muro davanti alla mia, è rimasto il segno della colla del post-it. Sotto, un po’ di briciole. Chiudo la porta. In una mano ho le chiavi, nell’altra la bottiglia di passata. Mentre percorro per l’ultima volta il corridoio, le luci mi accompagnano all’ascensore. Nella hall dello studentato consegno le chiavi e firmo i documenti del check-out. I miei amici intanto sono usciti, sotto il sole di luglio stanno schiacciando le borse nel bagagliaio della macchina. Il ragazzo della reception mi dice che i documenti sono a posto e che posso andare, mi augura una buona giornata. Ringrazio, saluto ed esco, passo dall’aria condizionata ai trenta gradi delle due di pomeriggio. I miei amici mi aspettano alla macchina.
«Tutto fatto? Quando ci sei partiamo».
«Ci sono. Possiamo partire».
Mentre guardo lo studentato dal finestrino, con una borsa gialla sulle ginocchia e la polpa di pomodoro in mano, lo saluto sottovoce. Poche volte quanto in questo momento ho sentito di essere viva.
– Fracesca Covini
“«Tutto fatto? Quando ci sei partiamo».
«Ci sono. Possiamo partire».
Mentre guardo lo studentato dal finestrino, con una borsa gialla sulle ginocchia e la polpa di pomodoro in mano, lo saluto sottovoce. Poche volte quanto in questo momento ho sentito di essere viva.”