Amicizia: una lettera oltre la morte, un amico per l’eternità
Ciao Ale,
mentre scrivo, torno con la mente a quel giovedì mattina di cinque anni fa. Se non sbaglio, era il 18 luglio, il giorno prima io avevo dato il mio ultimo esame e tu, il giorno dopo, avresti fatto la tua ennesima TAC. Ci siamo ritrovati a casa tua per quella che sarebbe stata la nostra ultima colazione insieme, una colazione che doveva essere «da re», perché era un po’ che non ci vedevamo. Di quel mattino ricordo tutto, la tua maglietta bianca con il gatto di Schrödinger stampato sopra, i litri di the al limone bevuti insieme, le tante partite giocate a Crash nel tentativo di farti rimanere sveglio e, poi, la solita domanda che tu amavi e che io tanto odiavo perché non sapevo mai cosa risponderti: «ora hai capito cosa ti piace?». La cosa che ricordo più nitidamente, però, è quella strana sensazione che mi bruciava l’anima e, forse, tormentava anche la tua. Ricordo che mi sentivo soffocata dalla consapevolezza che quel giorno sarebbe stata l’ultima volta in cui i nostri sguardi si sarebbero incontrati e, al contempo, ricordo che rifiutavo l’idea che da lì in poi i nostri corpi non si sarebbero mai più stretti in un abbraccio.
Non ti avevo detto nulla di queste mie sensazioni, forse per proteggerti, forse perché, all’epoca, non era quello l’importante. L’importante era passare il tempo che ci era dato nel migliore dei modi possibili, fosse anche solo bevendo del the e chiacchierando un po’. Del resto, non era questa la tua filosofia? Vivere la vita nel presente, preoccupandosi del futuro il giusto. Tu avevi un obiettivo, vivere la vita. Viverla davvero, però. Se c’è una cosa che mi hai insegnato è proprio questa: mai vivere la vita in superficie, ma sempre nel profondo. È difficile, lo sai? Certo che lo sai. Eppure, è così bello. Se non avessi deciso di vivere la vita nel profondo, probabilmente oggi non sarei qui a scrivere queste righe. Ti ricordi quando ti confidai di avere paura di affezionarmi a te? Ecco, se avessi seguito quella mia paura, avrei vissuto in superficie. Certo, avrei versato molte meno lacrime, ma a che prezzo? Avrei rinunciato alla nostra amicizia, per cosa? Per non soffrire? Davvero credevo di poter sfuggire alle sofferenze della vita? Ti ricordi cosa mi hai detto davanti a quel cappuccino e a quel panino al cioccolato, come dicevi tu, preso al Millennium di Bucci quel mattino di ottobre? Mi hai chiesto se valesse la pena rinunciare a un’amicizia per una paura. Ecco, non valeva la pena. Cazzo, se non valeva la pena. Se ti avessi perso per paura di viverti fino in fondo, non me lo sarei mai perdonata. La tua amicizia valeva molto più di una stupida paura. Poi, lo sai una cosa? Forse ti stupirà, ma quella tua frase, pronunciata così davanti a un cappuccino, è diventata il mio mantra. Mai rinunciare a qualcosa per paura di soffrire. Che sia un’amicizia, un amore o un’avventura, mai e poi mai rinunciarci a priori.
La tua lezione di vita: mai rinunciare per paura di soffrire
Difficile anche questo, vero? Mamma mia, quanto è difficile. Eppure, è una verità enorme. Quella frase mi ha salvato dal perderti come amico e continua ogni giorno a salvarmi dal perdermi come persona. Mi salva dalla tentazione di scappare davanti alle difficoltà, spingendomi ad assaporare il gusto profondo delle cose. Non ci riesco sempre, sai? Alle volte scappo comunque, mi faccio sopraffare dalla paura e fuggo. Capita, ci sto male, ma non è questo l’importante. L’importante è starci dentro, capire che la cosa giusta è vivere tutto fino in fondo. Quanto bene che mi hai fatto, Ale. E quanto bene che hai fatto a chiunque ti abbia incontrato. Ecco, non vorrei, però, che queste righe ti sembrassero un malinconico e vuoto elogio dei tempi passati. Del resto, è facile, quando muore una persona, dimenticarsi dei suoi difetti e finire per descriverla come l’essere più bello dell’Universo. Ma non è questo il caso. Ale, di te non voglio dimenticare niente, nemmeno i tuoi difetti. Eri competitivo, mai puntuale, un po’ irriverente e troppo sarcastico. Però, ecco, chissenefrega. Erano anche i tuoi difetti a renderti l’Ale che eri. E, diciamocelo, che importa dei difetti quando poi avevi il pregio di esserci sempre per tutti? C’eri con la tua razionalità invidiabile, con la tua ironia sottile, con il tuo pensiero profondo, con le tue parole leggere, con il tuo sguardo sornione, con il tuo fare raffinato. C’eri con le tue fragilità, così come con le tue sicurezze. C’eri e bastava.
Oggi, qualcuno potrebbe dire che non ci sei più. In effetti, sotto certi punti di vista, avrebbe ragione. Quante volte nei momenti importanti della vita avrei voluto averti seduto al mio fianco, ma non c’eri. Ma davvero una sedia vuota significa assenza, assenza di un amico? No e ancora no. Tu ci sei, eccome. Ci sei e continui ad esserci. C’eri il giorno della mia laurea, c’eri il giorno in cui ho dato l’esame di Stato e ci sarai il giorno in cui discuterò la mia tesi di dottorato che, ti stupirà, forse contiene la risposta a quella domanda che tu tanto amavi e che io tanto odiavo «ora hai capito cosa ti piace?». Ci sei e continui ad esserci per me e per chiunque abbia avuto la grazia di conoscerti e di esserti amico. Sai perché? Perché hai seminato bene. E solo chi semina bene resta nei cuori. Grazie Ale per aver scelto di essermi amico. La vita non avrebbe potuto farmi dono più grande. Quanto fanno bene amici come te.
Ti voglio bene, amico mio.
– Chiara Malinverno
“L’importante era passare il tempo che ci era dato nel migliore dei modi possibili, fosse anche solo bevendo del the e chiacchierando un po’. Del resto, non era questa la tua filosofia? Vivere la vita nel presente, preoccupandosi del futuro il giusto. Tu avevi un obiettivo, vivere la vita. Viverla davvero, però. Se c’è una cosa che mi hai insegnato è proprio questa: mai vivere la vita in superficie, ma sempre nel profondo.”