Intervista impossibile a Elsa Morante: scrittrice, saggista, poetessa e traduttrice italiana; ma anche prima donna a vincere il Premio Strega nel 1957
Oggi intervisto uno dei personaggi che ho letto e riletto, ma che ogni volta riesce a regalarmi un’emozione nuova.
Lei comincia a scrivere fin da giovanissima, inizia a comporre filastrocche e fiabe per bambini. Quali influenze familiari hanno segnato la sua infanzia e giovinezza?
«Credo che come tutti gli scrittori e le scrittrici anch’io abbia cercato nella scrittura una via di fuga. La mia infanzia non l’ho amata, ho cercato di reinventarmela, di modificare il mondo dentro il quale mi trovavo e che volevo rappresentare a modo mio. Un modo sognato e immaginato il più perfetto possibile, credendo sempre da quel momento in poi, anche diventata adulta, nella potenza dell’immaginazione e della sensibilità infantile. Il modo unico che hanno i bambini di stare al mondo, il loro senso di meraviglia, di immediatezza, di sentire senza filtri con uno slancio pieno di curiosità e amore verso quello che scoprono. Sapendo che ad ogni cosa meravigliosa corrisponde una parola; la parola che mi aiuta a incontrare le cose e ogni parola è una cosa che corrisponde a una scoperta, è una giunta al tesoro della vita».
Come hanno influenzato la sua vita e le sue opere gli eventi storici del XX secolo?
«In maniera profondissima e definitiva per la mia visione del mondo. Chi ha letto le mie opere sa, per esempio, come ho trattato gli eventi del ventesimo secolo nel mio romanzo La Storia, una denuncia della nostra storia, cioè il nostro passato, il nostro presente, una realtà fondata su un meccanismo di sopraffazione e di violenza irrefrenabile. Con quell’opera ho cercato di dire anche che cosa potrebbe e dovrebbe essere la storia: la storia di coloro che subiscono gli eventi oltre che e ancor prima della storia di coloro che gli eventi li causano e li governano. Odio il potere per come si manifesta, per come viene esercitato e per come regola il meccanismo del mondo. Non mi riconosco assolutamente in questa trappola infernale che chiamiamo storia e ho cercato di riscriverla, di trasmettere il senso che le do io. Il diritto che ha ognuno di noi di avere il suo racconto, quindi la sua storia, ho dato una storia a tutti, a cominciare dalle creature apparentemente più insignificanti. Ogni vita è unica e irripetibile».
Com’ è stato il rapporto con suo marito, lo scrittore Alberto Moravia, e come ha influenzato la sua carriera?
«Mi sono innamorata perdutamente di Alberto da giovanissima. Lo raccontano le pagine del mio diario che una studiosa ha trovato e pubblicato con molto garbo, sapendo di commettere una violazione della mia privacy, ma convinta di compiere un atto che poteva illuminare qualcosa di me ancora sconosciuto agli occhi degli altri. In quelle pagine si percepisce con quanta forza Alberto sia entrato nella mia vita e anche nel mio inconscio. Tuttavia ritengo che la mia opera abbia seguito un suo binario del tutto indipendente dal percorso con lui: non avevo bisogno delle sue sollecitazioni, delle sue influenze, quando ci siamo incontrati ero già una scrittrice».
Nel 1957 esce il suo secondo romanzo, L’isola di Arturo, un grande successo che le fa vincere il Premio Strega. Una metafora del passaggio all’età adulta. Ci racconta com’è nata l’dea?
«Il mondo infantile mi ha incantata, ho pensato che lì c’è il vero segreto della vita. Ho sempre scritto di bambini e bambine, Arturo è arrivato dopo Elisa, la protagonista di Menzogna e sortilegio. Una bambina che cresce incamerando tutte le follie, le ossessioni della sua discendenza, diventata adulta, riscrive la propria genealogia per poter dare pace alle anime delle persone che non ci sono più e poterle amare liberamente. Arturo è alla scoperta del mondo, della sessualità, del rapporto con sé stesso e con i paesaggi che ama. Ho esplorato quella soglia delicatissima che è il passaggio all’età adulta, e l’ho segnato come un confine geografico: l’isola è la sua infanzia e il distacco è l’approdo alla maturità. Il finale di Arturo penso sia la pagina più emozionante che illumina retrospettivamente tutta la sua vicenda pregressa. Arturo non ha il coraggio di guardare l’isola che si allontana dal ponte della nave e chiude gli occhi, quando li riapre, l’ultima frase è: “l’isola non si vedeva più”.
Ho continuato a parlare di bambini, ho inventato Useppe, il protagonista de La Storia, ho dedicato un libro sperimentale, Il mondo salvato dai ragazzini, in cui ho messo in scena due popolazioni: gli “fp e gli im” (i felici pochi e gli infelici molti). I felici pochi sono quasi tutti bambini o adulti che hanno saputo conservare intatto il segreto dell’infanzia».
In che modo è stata accolta la pubblicazione del libro La Storia nel contesto della letteratura italiana degli anni ’70?
«Con un grande scompiglio perché è un libro molto provocatorio, di denuncia del modo in cui il mondo funziona. Ho voluto a tutti i costi che uscisse in edizione economica, perché potesse arrivare a più gente possibile. È un romanzo storico che rende onore al grande maestro di romanzi storici: Manzoni, e anch’io come lui mi sono messa dalla parte degli innocenti per denunciare coloro che “nuocciono”, mi sono messa dalla parte di quelli che la storia la subiscono. Il mio libro evidentemente ha funzionato, ma ho dovuto discutere e arrabbiarmi con tante persone, anche amiche, prima fra tutte Pier Paolo Pasolini, che in una recensione lunga e bella mi ha accusata di essermi dilungata troppo nella prima parte del romanzo, dove racconto il passato di Ida».
Come pensa di aver influenzato altri scrittori e scrittrici della letteratura italiana contemporanea?
«È ancora presto per avere una risposta chiara: stiamo osservando che cosa della mia opera si diffonde e lascia un segno nell’opera di altre autrici e autori. So che Anna Maria Ortese mi ha ammirata tantissimo e ha detto di me che sono una montagna, un genio. Dicono, ma ancora voglio verificarlo, che Elena Ferrante, la grande protagonista di questo nuovo millennio, mi debba qualcosa. Soprattutto scrittrici donne stanno evocando qualcosa della mia opera, ma è prematuro perché io possa parlare di una mia eredità. Non ho mai voluto essere definita scrittrice, ho temuto per tutta la vita che la scrittura femminile potesse essere richiusa in un ghetto e quindi scrittrice diversa da scrittore, io volevo essere una protagonista del mondo della letteratura, punto e basta».
Il suo obiettivo è stato quello di narrare la storia dal punto di vista degli ultimi, le cui tragedie personali non trovano posto nel racconto della Storia ufficiale. Oggi il suo romanzo è molto presente. Che cosa ne pensa del mondo attuale?
«Penso male, come l’ho pensato in passato, ho paura che gli “infelici molti” continuino a superarare i “felici pochi”, però ho ancora fiducia che qualcuno sia diverso, una persona di natura celeste; spero che possiamo incontrare qualcuno come il mio Useppe e riceverne ancora un moto di speranza. È vero, in questo romanzo, che riscriverei oggi uguale, si denuncia la storia come tragedia, ma è anche vero che è un libro pieno di speranza. Termino il romanzo con una citazione di Gramsci: “non tutti i semi si sono perduti, forse da uno è nato un fiore”.
Ecco, vorrei che quel forse e quel fiore potessero continuare a orientare il nostro sentire e a permetterci di continuare ad amare la vita come ho fatto io».
– Elsa Morante
Arturo è alla scoperta del mondo, della sessualità, del rapporto con sé stesso e con i paesaggi che ama. Ho esplorato quella soglia delicatissima che è il passaggio all’età adulta, e l’ho segnato come un confine geografico: l’isola è la sua infanzia e il distacco è l’approdo alla maturità. Il finale di Arturo penso sia la pagina più emozionante che illumina retrospettivamente tutta la sua vicenda pregressa. Arturo non ha il coraggio di guardare l’isola che si allontana dal ponte della nave e chiude gli occhi, quando li riapre, l’ultima frase è: “l’isola non si vedeva più”.