La solitudine dei familiari nel labirinto dei disturbi alimentari
Si dice, o perlomeno così ho sempre sentito dire, che quando un familiare si ammala di Disturbi del Comportamento Alimentare si ammala tutta la famiglia. Nella mia esperienza, che di concetto-famiglia prima ne avevo un’ombra oscura e poi è diventato qualcosa dai contorni confusi, il sistema familiare non ha saputo accogliere la mia malattia e quasi, in parte, non se n’è interessata per niente. Anni dopo, quando chiedo a mia madre il perché del suo atteggiamento, di solito il suo volto si incupisce, i suoi occhi si fanno più scuri e prova a nascondersi dietro al caschetto nero e la frangia che le copre metà del viso. Sembra quasi in una situazione di timidezza o vergogna mentre mi risponde: «nessuno mi ha detto cosa fare con te, nessuno mi ha spiegato come dovevo comportarmi», e continua, «anche se ho sofferto di Anoressia e Bulimia non ero in grado di aiutarti se qualcuno non aiutava me a capire cosa avrei dovuto fare».
Ed è vero, è andata così: neuropsichiatri infantili che la tranquillizzavano se il peso saliva e medici del Pronto Soccorso che richiedevano un ricovero immediato in una struttura, diagnosi confuse e mai realmente spiegate, borderline non solo nella personalità, ma anche nel contorno della diagnosi. Sono stata fortunata a ricevere quello che era un mio diritto, il diritto di tutti, quello della diagnosi. Ma una volta emessa la sentenza, quasi il sistema pubblico ha deciso di darsi alla macchia, e l’unica persona che provava a farmi elaborare e interiorizzare il concetto di malattia fu Cinzia, la mia splendida educatrice di cui ho parlato nella mia B.Liver Story.
Non era suo compito o, meglio, non doveva spettare a lei entrare in dettagli tecnici. Ma lo fece per cercare di aiutare mia madre e poi me, che in quel momento eravamo incasinate fino al collo e non trovavamo una quadra per il mio benessere.
Poi è stata lei, mia madre, a darsi alla macchia. «Era troppo difficile», mi dice oggi, «mi dicevano una cosa e poi me ne consigliavano un’altra, parlavo con uno psicologo che mi diceva che non era necessario e poi ne incontravo un altro che mi diceva che non ti poteva curare». Continuava sommessamente: «mi dicevano che la tua diagnosi era sbagliata, ma la psichiatra mi ripeteva che eri malata davvero, e più sentivo pareri più ero confusa sul da farsi» e quindi, probabilmente preda della disperazione, ha semplicemente mollato il tiro per difendersi da tutto quel dolore.
Quanto è importante una famiglia quando parliamo di DCA? Qual è il suo ruolo?
La risposta appare banale. Tanto. Eppure è così difficile, perché spesso a generare confusione in un genitore già scosso sono proprio i curanti. Ogni tanto mi capita di girovagare su Tiktok e vedere video di ragazze che rispondono ai commenti con le loro madri, e una volta sono incappata nel video di Maya, una ragazza che ha sofferto di Anoressia Nervosa, e i commenti vertevano tutti sulla stessa domanda: «Dov’era tua madre?».
Perché si sa, se per l’opinione generale i DCA sono vizi, capricci, paturnie dallo sguardo infantile, allora è colpa della madre che ha permesso che tutto ciò accadesse. Eppure, non riescono a cogliere il dolore, la rabbia, la tristezza, la confusione che un genitore può attraversare. Il senso di smarrimento, un «perché?» assordante, un «dove ho sbagliato?» che spesso ha più a che fare con sé stessi che con la malattia del figlio.
E allora mettiamolo in chiaro: non esistono colpe. Dare la colpa alla famiglia di un DCA è fuorviante e deleterio. Non esistono responsabilità, esiste una malattia che colpisce indiscriminatamente, un mostro mortifero con denti aguzzi che non lascia la preda, ed esistono curanti che confondono, che sono poco chiari, che minimizzano, che non vogliono «etichettare», lasciando la famiglia completamente… sola. Senza strumenti, senza conoscenze, senza sapere come arginare un vortice di disfunzionalità e distruzione. Iniziamo a insegnare ai curanti quanto sia fondamentale fornire una famiglia di strumenti, martelli e chiodi per costruire qualcosa, qualcosa che non sia una culla ma un perno d’appoggio utile, funzionale, sincero, e soprattutto d’aiuto. Per tutto il nucleo familiare.
– Cristina Procida
“Ed è vero, è andata così: neuropsichiatri infantili che la tranquillizzavano se il peso saliva e medici del Pronto Soccorso che richiedevano un ricovero immediato in una struttura, diagnosi confuse e mai realmente spiegate, borderline non solo nella personalità, ma anche nel contorno della diagnosi. Sono stata fortunata a ricevere quello che era un mio diritto, il diritto di tutti, quello della diagnosi. Ma una volta emessa la sentenza, quasi il sistema pubblico ha deciso di darsi alla macchia.”