La strada e l’avventura: “Ciò che facciamo ogni giorno, il viaggio e l’impegno, fissano già il punto di arrivo”. Intervista a Chiara Saraceno.

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La B.Liver Federica ha intervistato la sociologa Chiara Saraceno sul valore del percorso nella vita, la crisi giovanile, la disuguaglianza e la crescente aporofobia (paura od ostilità verso la povertà o verso i poveri) nella società moderna.
Una foto con i giovani che simboleggia l’amicizia e la collaborazione.

Le strade senza meta: intervista a Chiara Saraceno

Forse tutte le strade sono in fondo strade che non vanno in nessun posto, finché non le percorriamo. E no, non ho scritto «finché non sono state percorse», o «finché qualcuno non le abbia percorse» e simili. Perché il soggetto, qui, mi sembra oltremodo importante. E determinante. Discriminante meglio ancora. Solo che tutti, come ci ricorda la professoressa Chiara Saraceno, filosofa e sociologa italiana, dovremmo essere messi nelle stesse possibilità di camminare. Fosse anche per andare da nessuna parte.

«Ho deciso di voler essere una grandissima quantità di sbagli, di facce incontrate, di tempo perso e ritrovato nei ricordi». Così dice Emma Nolde, cantautrice ventiduenne, sul palco di TEDx Verona 2023. E dice pure tanto altro: che siamo circondati di persone arrivate, che ce l’hanno fatta, o che hanno scoperto qualcosa prima di tutti gli altri; che ci sentiamo in ritardo, o vuoti, e abbiamo paura di perdere (altro) tempo; che l’inutilità è utile pure se anti-performativa e che di certe cose la risposta esatta non è che non la si trova, è che proprio non ce l’hanno e basta. Dilaga tra i giovani quest’ansia di arrivare, e pur manca la curiosità di intraprendere strade che non si sa dove portino; strade che non vanno in nessun posto, direbbe Rodari. Ma vale davvero meno, un tracciato, se non accompagnato sin dall’inizio da un cartello che ne indica con chiarezza la destinazione, e magari pure la distanza da percorrere per raggiungerla?

«Avere un’idea di che cosa si vorrebbe fare è utile, forse necessario, ma solo nella misura in cui non impedisce non tanto di vedere le alternative, quanto proprio di maturare desideri nuovi, di farsi interrogare da incontri ed esperienze impreviste, che sollecitano aspirazioni e capacità che non si sapeva di avere.

Certo, vi sono alcune professioni – sport, danza, musica soprattutto – che richiedono una profonda dedizione sin da piccoli. Tuttavia, anche in questo caso, sarebbe bene coltivare anche altri interessi, lasciare porte aperte, perché un incidente di percorso può vanificare in qualsiasi momento un progetto di vita cui pure si teneva molto.

Tra l’altro, a ben vedere, la maggior parte degli adulti, compresi quelli “arrivati” (qualsiasi cosa significhi), non ha quasi mai sistematicamente perseguito un unico, chiaro e lineare progetto esistenziale: hanno colto occasioni favorevoli, si sono adattati alle circostanze.

Al di là di questo, però, a preoccuparmi, molto più che i giovani e gli adolescenti che hanno o non hanno davanti a sé una strada poco/ben/troppo definita, sono i giovani e gli adolescenti appartenenti ai ceti sociali più svantaggiati, che sin dalla più tenera età hanno dovuto apprendere lo scarto che vi è tra ciò cui possono aspirare e quanto sarà loro effettivamente e realisticamente consentito di essere, fare e diventare. Una mortificazione del desiderio, questa, che trovo davvero ingiusta e inaccettabile».

Chiara Saraceno, (Milano, 1941). Sociologa, laureata in filosofia, ha insegnato
Sociologia della famiglia all’Università degli Studi di Torino. È stata direttrice del dipartimento di Scienze sociali, del Centro interdipartimentale di studi e ricerche delle
donne
, nonché membro della Commissione italiana di indagine sulla povertà.
Illustrazione di Chiara Bosna.

«Spesso conta il viaggio più di dove vai». Stesso concetto forse, altre parole. E sempre cantanti: Fulminacci in Aglio e Olio, stavolta. Ma pure libri: persino Wikipedia è stata in grado di estrapolare, dalle prime pagine di Sulla strada di Kerouac, il passaggio che da solo quasi quasi basterebbe a tenere in piedi il senso dell’intero volume: «Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati» «Dove andiamo?» «Non lo so, ma dobbiamo andare». E se la paura, anziché dire alle gambe di prepararsi a muoversi, ci paralizzasse come fossimo capre miotoniche? Se avesse la testa più dura di Martino? Dove si va? Come si va?

«Mi verrebbe da dire che la meta è definita proprio dal viaggio, dal percorso, se non che coincide addirittura con lo stesso. Ovvero con ciò che si fa della propria vita giorno per giorno».

Chi siamo quando non siamo impegnati? Chi siamo quando restiamo in silenzio? Chi siamo quando siamo fermi?

«Siamo sempre noi, anche quando non “andiamo in scena”. Sebbene, per qualcuno, non avere pubblico, e rimanere quindi con sé stessi, possa provocare una sorta di horror vacui».

Che si intraprenda un sentiero segnato o una strada che non porta in nessun posto, andare, in qualunque caso, implica il rischio di perdersi. E i giovani oggi si sentono spesso smarriti. Che cosa c’è all’origine del vuoto che li coglie? È – come a volte si sente dire – «colpa» degli adulti? E come e perché da quei vuoti si genera rabbia, spesso anche violenta, talvolta addirittura assassina?

«La giovinezza è per definizione l’età dell’incerto, un tempo in cui per natura si oscilla tra la tensione a irrigidire la propria identità e separatezza (dai genitori, o dagli adulti di riferimento in generale) e il cedere alla tentazione dell’indefinito, rifiutandosi di rimanere incastrati in cellette precostituite. Oggi, forse, però, quest’incertezza di fondo è acuita dal fatto che non si tratta più soltanto di un’esperienza soggettiva più o meno temporanea, quanto piuttosto della cifra di un’intera società, alle prese con crisi climatiche, guerre e rapidi mutamenti prodotti dallo sviluppo tecnologico e dall’indebolimento di alcuni importanti equilibri geo-politici. Oggi, insomma, occorre proprio imparare a viverci, nell’incertezza. Che non è tuttavia, secondo me, bacino sorgivo dell’agire violento. Il vuoto da cui la violenza scaturisce è piuttosto un vuoto di umanità, di capacità di relazione. E, tra l’altro, non è vero che oggi c’è più violenza di un tempo: i dati che abbiamo a disposizione ci dicono esattamente il contrario».

C’è distinzione tra talento e merito?

«Sì. Il talento è una dote che una persona dimostra per una determinata attività (si può essere portati per il tennis, la musica, la matematica, e via dicendo), e non c’è merito in questo. Perché il merito, invece, sta nell’impegnarsi a sviluppare quel talento, o in generale le proprie capacità. A scuola, tra gli studenti, i talenti possono essere diversi, così come diverse sono le possibilità di svilupparli, che dipendono spesso dal contesto familiare e sociale di ciascuno. Scambiare tali differenze, che spesso sono anche vere e proprie disuguaglianze socialmente strutturate, per differenze di merito non solo è ingiusto, ma pure profondamente sbagliato».

Aporofobia: paura od ostilità verso la povertà o verso i poveri. E, se direttamente proporzionale al suo oggetto, in aumento anche lei. Di fronte a un dato così evidente – riportato, oltre che dalle nostre strade, anche dalle statistiche Istat – e così vicino a tutti, perché nessuno si ribella al fatto, assurdo, che non basta neppure avere un lavoro, per non cadere in povertà?

«Non è del tutto vero che nessuno si ribella, anche se è vero che oggi, pure tra chi è povero, dilaga una sorta di rassegnazione, figlia della sfiducia in una reale possibilità di cambiare le cose. È significativo, in tal senso, che non ci sia stata alcuna mobilitazione collettiva da parte delle decine di migliaia di persone e famiglie che hanno perso l’accesso al Reddito di Cittadinanza pur senza essere usciti da una condizione di povertà: si sono semplicemente rassegnate, appunto, di fronte alla constatazione che non esistono diritti per loro, ma soltanto precarie elargizioni che possono esserci o non esserci a seconda di chi è al governo».

Esiste una responsabilità del bene di tutti? Siamo in qualche modo responsabili di chi non ce la fa?

«Personalmente ritengo di , a livello collettivo. Ma temo che questa non sia un’opinione condivisa».

– Chiara Saraceno

La giovinezza è per definizione l’età dell’incerto, un tempo in cui per natura si oscilla tra la tensione a irrigidire la propria identità e separatezza (dai genitori, o dagli adulti di riferimento in generale) e il cedere alla tentazione dell’indefinito, rifiutandosi di rimanere incastrati in cellette precostituite. Oggi, forse, però, quest’incertezza di fondo è acuita dal fatto che non si tratta più soltanto di un’esperienza soggettiva più o meno temporanea, quanto piuttosto della cifra di un’intera società, alle prese con crisi climatiche, guerre e rapidi mutamenti prodotti dallo sviluppo tecnologico e dall’indebolimento di alcuni importanti equilibri geo-politici. Oggi, insomma, occorre proprio imparare a viverci, nell’incertezza.

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