Intervista a Luigi Mazzola: “Feci il test per Valentino Rossi. Sì, poteva pilotare una Ferrari”

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Il B.Liver Michele ha intervistato Luigi Mazzola, che racconta la sua carriera in Ferrari, l’esperienza con Prost e Schumacher e successivamente il coaching con campioni come Djokovic e Paolini.
luigi mazzola e michele fagnani intervista
Sopra Michele Fagnani con Luigi Mazzola.

Luigi Mazzola: dalla Ferrari al coaching, tra sfide e cambiamenti

Intervista a Luigi Mazzola, che è stato ingegnere responsabile della performance e affidabilità di vetture di F1.
Manager di un gruppo di ingegneri, tecnici e meccanici ed executive coach (affiancando atleti di calibro mondiale, tra cui Nole Djokovic e Jasmine Paolini), testimonial emozionale e formatore nell’ambito della leadership e della vendita.

Noi del Bullone di solito concludiamo le interviste chiedendo al nostro interlocutore tre parole che lo rappresentino, un po’ come il nostro motto «fare, pensare e far pensare». Vorrei farle questa domanda per prima perché sono certo che le tre parole che mi dirà si legheranno alle prossime domande.

«Di sicuro “essere”, di sicuro “fare” – che ci permette di essere -, “pensare” non tanto, poi direi “divertirsi”».

Passando a parlare del suo percorso in Formula 1, quali differenze vi sono nel modo di lavorare tra la «sua» Formula 1 e quella attuale?

«Posso confrontare la situazione di quando ero all’interno con quella che conosco dall’esterno. Quando ho iniziato a lavorare in Ferrari, in pista vi erano una trentina di persone, adesso sono molte di più perché c’è molta più specializzazione. Prima le macchine erano più semplici, oggi ci sono molti più eventi. Un’altra differenza è che prima c’erano i test, adesso non più ed è tutto imperniato sul weekend di gara. C’era un’attività di formazione delle persone e un’attività più spinta di sviluppo della macchina, c’erano molte meno regole. L’attuale Formula 1 è mossa dallo spettacolo. Infine, prima c’erano molte più occasioni di connessione tra i vari team, ci si conosceva tutti, ora i team sono super impegnati con poca possibilità di interscambio. Mi dicono che è molto meno divertente rispetto al passato».

Come ha vissuto il periodo dei primi anni 90 in Ferrari con i vari cambi di team principal?

«Sono entrato nel 1988, nel 1989 ho cominciato in gara, sono stato ingegnere di pista di Prost nel 1990 e 1991, poi mi sono licenziato dalla Ferrari perché non ero d’accordo con i capi di allora sul modo di interpretare la Formula 1. Dei primi capi che ho avuto ricordo volentieri Cesare Fiorio, che era una persona competente, di carisma e a cui sarò sempre grato, perché è grazie a lui che da tecnico dei test sono passato alle gare. Successivamente sono andato in Sauber Mercedes, che faceva prototipi. La Mercedes voleva entrare in Formula 1 e formare un team con Sauber. Poi Mercedes si ritirò lasciando a Sauber la possibilità di continuare il progetto; Sauber mi chiamò nel 1992 e nel 1993 iniziammo il Mondiale. Al primo Gran Premio siamo stati davanti alla Ferrari. Montezemolo, che nel frattempo era diventato Presidente, si arrabbiò molto e mi chiese di tornare in Ferrari. Conobbi Jean Todt che era ancora in Peugeot e fui il primo uomo Ferrari che reclutò per la sua futura gestione. Ricominciai come ingegnere di pista di Gerhard Berger, con Jean Todt al timone, che era persona non semplice, potremmo paragonarlo a un Napoleone, ma con tanti aspetti positivi, trascinatore, molto presente. Con lui è arrivato Michael (Schumacher), Ross Brawn e Rory Byrne e si è così formato il leggendario “Dream Team”».

Mi racconta l’episodio del Gran Premio del Giappone del 1991 quando Prost definì la Ferrari un camion, commento che poi lo portò al suo allontanamento dalla casa automobilistica?

«Prost non voleva criticare la squadra o la macchina, che nel ’91 era molto difficile da guidare, infatti era molto sovrasterzante e per bilanciarla occorreva irrigidirla. Suzuka è un circuito con un susseguirsi di curve destra/sinistra molto veloci e per il pilota, senza il servosterzo che non c’era ancora, sterzare era veramente arduo. Quindi, disse che la macchina era talmente dura che sembrava di guidare un camion talmente era pesante. La frase venne utilizzata in maniera strumentale dai suoi detrattori per mandarlo via».

Dato che lei faceva parte della squadra test, ci può dire quanto è andato vicino Valentino Rossi a un sedile in F1?

«Mi fu affidato il progetto di valutare la sua capacità come pilota di Formula 1. Il tutto durò ben due anni con una decina di test tra Barcellona, Mugello, Fiorano e Valencia. Partendo dal primo test, in cui Valentino si rifiutò di guidare perché trovava troppo difficile una macchina di Formula 1, all’ultimo test a Valencia, dove dimostrò di essere molto veloce. Alla domanda se Valentino potesse diventare un pilota di Formula 1 io dissi di , perché la macchina di allora era molto veloce e perché c’erano i test che avrebbero permesso di recuperare il gap che separava il campione di moto da un pilota di Formula 1, ad esempio, come allenare le forti sollecitazioni al collo».

Che cosa l’ha resa più orgoglioso nella sua esperienza in F1?

«La prima è di aver cominciato come ingegnere junior, ignaro del mestiere nella sua complessità; di Alain Prost, che dopo tre/quattro mesi mi disse che avevo fatto un salto molto grande. Lavorai parecchio per raggiungere quel risultato. C’è un elemento che mi ha sempre spinto e che ancora mi spinge ed è la sfida: io sono un essere sfidante e con Alain Prost la presi proprio così e la vinsi, lui era il “Professore” e lo riconobbe. La seconda, è di aver preso in mano a fine 1994, d’accordo con Todt, la squadra test allora formata da quattro persone e di averla portata negli anni duemila a duecento persone, con la possibilità di provare su tre circuiti contemporaneamente. Questo era diventato per la Ferrari un elemento di assoluta predominanza rispetto agli altri team, perché arrivavamo sempre molto preparati alla gara».

Che cosa ha rappresentato la Ferrari per lei?

«Fin da ragazzino ho avuto le macchine nella testa, spaziavo dal modellismo alle macchine radiocomandate, alle slot-car con i binari, mi interessavo al mondo della meccanica, al motorsport e alla Formula 1 in particolare, leggevo tutte le riviste del settore; poi Gilles Villeneuve ha svegliato del tutto la mia passione e si è formato il mio sogno di entrare in Ferrari. Andai a studiare ingegneria – corso Costruzioni Automobilistiche – da fuori sede a Torino e quello fu un periodo difficile perché non avevo soldi e facevo letteralmente la fame, per due anni sono andato avanti a bastoncini Findus e insalata, ma la voglia di raggiungere l’obiettivo di entrare in Ferrari era talmente radicata che penso sia vero quando si dice che “il mondo ti dà per ciò che sei”, io ero già ingegnere di pista, anche se in realtà non lo ero ancora. Ferrari è un sogno di bambino che è diventato la realtà in cui ho lavorato per ventidue anni».

Venendo al suo ruolo di mental coach, quanto sono importanti il confronto, il dialogo e l’ascolto per superare le difficoltà e migliorare le performance?

«Sono diventato coach in Ferrari molti anni fa per crescere nel management: mi piacque molto perché mi dava la possibilità di essere migliore nella qualità dell’ascolto delle persone. Altrettanto importante è saper fare le domande. Sono stato fortunato perché per dieci anni ho potuto allenarmi con dei campioni come Valentino, Michael e Kimi. Quando ho smesso con la Ferrari, l’ho fatto diventare una professione anche nell’ambito dello sport con Djokovic e Jasmine Paolini. Al termine “mental coach” preferisco il termine “performance coach, anzi, si dovrebbe parlare di “non mental coach”, perché quello che frega certi sportivi è l’utilizzo della mente in maniera spropositata».

Su quali aspetti ha lavorato con Jasmine Paolini? Aveva il sentore che potesse arrivare in top ten, Oro Olimpico, finali a Wimbledon e Roland Garros?

«Nel caso di Jasmine, su di lei pesava il giudizio e l’ansia durante il match. Mentalmente mollava, nonostante le grandi capacità. Con un grande lavoro è maturata tantissimo ed è arrivata dove è arrivata, non posso dire che mi aspettavo entrasse tra i primi cinque, ma almeno tra i primi venti. È un motivo di grande soddisfazione e orgoglio, forse più che con Nole, che era già un grande campione, mentre con Jasmine c’è stata proprio la crescita».

Che significato ha il motto «Avanti tutta»?

«Vuol dire non fermarmi mai, vedere sempre l’aspetto positivo delle cose, trovare soluzioni alternative di fronte alle difficoltà, che sicuramente si presenteranno. “Avanti tutta” è cercare di migliorarsi, di raggiungere, divertendosi, il proprio obiettivo, il proprio sogno. Questo è sempre stato il mio modo di affrontare le cose insieme a un altro mantra: “lasciare il certo per l’incerto”».

Riallacciandomi a quello che ha appena detto, un’altra mia domanda era: qual è l’importanza del cambiamento?

«Il cambiamento è la vera costante della vita. La zona di comfort è quella in cui la persona ha il controllo della situazione e si sente sicura e protetta, ma se cambia l’esterno (e cambia continuamente), cambia. La vera zona di comfort è il cambiamento, necessario per raggiungere il proprio obiettivo».

Come si combatte l’ansia e la paura?

«L’essere umano è un essere pensante, per poterlo fare ha bisogno del tempo. Il tempo è formato da tre grandi corridoi, il passato, il futuro e il presente. L’ansia è la proiezione nel futuro di un pensiero per qualcosa che potrebbe capitare, ma che in quel momento non sta capitando. Il giudizio è una proiezione del passato di qualcosa che ti è capitato e poiché il 70% dei nostri pensieri è negativo, finiamo per portare quella negatività dal passato al presente, a quello che devi fare in quel momento. La soluzione è non pensare, focalizzare il pensiero solo su quello che stai facendo in quel momento, e non farsi condizionare da giudizio e ansia. Il segreto è dedicarsi totalmente alla cosa che devi fare. Ti devi preparare, ti devi allenare ma quando “entri in campo”, se ti fai prendere dal pensiero, lui ti guida nella non performance».

– Luigi Mazzola

Andai a studiare ingegneria – corso Costruzioni Automobilistiche – da fuori sede a Torino e quello fu un periodo difficile perché non avevo soldi e facevo letteralmente la fame, per due anni sono andato avanti a bastoncini Findus e insalata, ma la voglia di raggiungere l’obiettivo di entrare in Ferrari era talmente radicata che penso sia vero quando si dice che “il mondo ti dà per ciò che sei”, io ero già ingegnere di pista, anche se in realtà non lo ero ancora. Ferrari è un sogno di bambino che è diventato la realtà in cui ho lavorato per ventidue anni.

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