Intervista impossibile a Lidia Poët: “Io, «avvocato» nonostante i no dei maschi”

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Lidia Poët, pioniera nell’avvocatura italiana, superò ostacoli legali e sociali, battendosi per l’uguaglianza di genere, i diritti dei minori e le riforme del sistema penale.
Lidia Poët interpretata da Max Ramezzana

Lidia Poët, la prima donna avvocato che cambiò la storia della giustizia in Italia

Ho incontrato l’avvocato Lidia Poët nel suo studio di Torino in un palazzo del ‘900 dove ha cominciato a lavorare con il fratello Edoardo.

Lidia Poët, (26 agosto 1855, Perrero – 25 febbraio 1949, Diano Marina) è stata un avvocato,
la prima donna a entrare nell’Ordine degli avvocati in Italia. Rese importanti contributi per
la realizzazione del diritto penitenziario. Partecipò alla realizzazione del programma del
Congresso delle donne italiane
tenutosi a Roma.

Lei, Lidia Poët, è stata la prima donna a laurearsi in Giurisprudenza nel 1881 in Italia. In un mondo dell’avvocatura che era maschile quali sono stati i principali ostacoli che ha dovuto superare per diventare avvocato?

«Ho sognato di accedere a un “mondo maschile”. Ci sono riuscita, ma ho affrontato molti ostacoli. Mi fu inizialmente precluso, dalla legge e dalle Istituzioni, l’accesso alla professione forense. Ricordo che la cultura dell’epoca considerava la professione legale un dominio maschile, ritenendo che le donne fossero emotivamente e intellettualmente inadatte a ricoprire ruoli pubblici o professionali di rilievo. Mi trovai ad affrontare stereotipi che minavano la mia legittimità come professionista e, spesso, come essere umano. Mi iscrissi all’Albo degli Avvocati di Torino nel 1883, ma la mia iscrizione fu annullata dalla Corte d’Appello di Torino, che riteneva la professione forense “incompatibile con la natura femminile».

Come ha reagito la società italiana alla decisione dell’Ordine degli avvocati di accoglierla?

«Quando l’Ordine degli Avvocati di Torino accettò la mia iscrizione nel 1883, la reazione della società italiana fu tutt’altro che positiva. Molti lo considerarono un affronto all’ordine naturale delle cose, ritenendo che una donna non avesse il diritto di intraprendere una professione, fino ad allora, dominio esclusivo degli uomini. Le critiche furono dure e vennero tanto dalla classe dirigente quanto dalla stampa conservatrice, che non esitò a dipingermi come una figura “fuori posto” o come una minaccia all’equilibrio sociale.

Fortunatamente, non tutti mi erano ostili. Alcuni intellettuali e progressisti sostennero la mia causa e videro nella mia battaglia una speranza per il futuro per donne italiane. Anche se erano voci isolate, il loro appoggio mi ha dato forza. Quando la Corte d’Appello annullò la mia iscrizione, non mi arresi. Continuai a lavorare nel campo legale, trovando altre vie per mettere le mie competenze al servizio degli altri, in particolare dei più deboli, come donne e minori. La strada era in salita, ma la mia convinzione che le donne avessero diritto di accedere a ogni professione mi spinse a continuare. Molti anni dopo, quando finalmente mi fu riconosciuto il diritto di esercitare come avvocato (non chiamatemi avvocata!), la società stava iniziando a cambiare. Ma c’era ancora molta strada da percorrere».

Cinzia Farina, laurea in Lingue e Letterature moderne, ha frequentato
l’Istituto di medicina psicosomatica, specializzata in alimentazione, cronista
del Bullone.

Lei è riuscita ad influenzare le politiche sociali e giuridiche in Italia, ce ne parla?

«Ho dedicato la vita non solo alla mia battaglia personale, ma anche a gettare le basi per un cambiamento più ampio nelle politiche sociali e giuridiche italiane. Nonostante gli ostacoli, il mio impegno ha avuto un impatto che è andato oltre la mia vicenda. Credo che la mia lotta per l’iscrizione all’Albo degli Avvocati di Torino abbia acceso un dibattito pubblico sull’uguaglianza di genere e sull’accesso delle donne alle professioni.

La mia esclusione non fu solo una questione legale, ma divenne un simbolo delle limitazioni che le donne affrontavano in ogni ambito della vita pubblica. Mi sono dedicata alla difesa dei diritti delle donne, dei minori e degli emarginati, ambiti che a quel tempo, forse anche oggi, erano trascurati. Ho dimostrato che le donne non solo potevano contribuire al progresso della giustizia, ma che la loro prospettiva era essenziale per affrontare questioni delicate e spesso ignorate. Anche se non mi è stato permesso di partecipare direttamente alla formulazione delle leggi, ho creduto fermamente nel potere dell’esempio. Il mio impegno ha ispirato altre donne a intraprendere studi giuridici e a rivendicare i propri diritti».

Ci racconta dei suoi successi nelle missioni internazionali, in particolare nei Congressi Penitenziari?

«I Congressi Penitenziari Internazionali hanno rappresentato un’occasione straordinaria per contribuire a un dibattito in un ambito per me cruciale: il trattamento dei detenuti e la riforma del sistema penale e penitenziario. Partecipare a questi Congressi mi permise di portare le mie idee oltre i confini italiani, confrontandomi con giuristi di tutto il mondo. Il mio impegno si concentrò sulla necessità di umanizzare il sistema carcerario e di mettere al centro la riabilitazione del detenuto. Ho sempre sostenuto che una società civile non può limitarsi a punire, ma deve offrire strumenti per il reinserimento. Queste idee, per l’epoca, e in verità anche ora, erano considerate audaci, ma trovai alleati in altre figure illuminate presenti a quei tavoli di discussione».

Benedetta Cappiello, (Milano, 1985), professoressa associata di Diritto Internazionale presso l’Università degli Studi di Milano. Scrive su riviste prestigiose di diritto, ed è stata ospite-relatrice a convegni nazionali e internazionali.

La sua avvocatura portò all’istituzione di tribunali per minori e alla differenziazione tra reati commessi da giovani e adulti.

«La mia attività si è sempre concentrata su una visione più umana e giusta del diritto, e questo mi ha indotto a dedicare gran parte del mio impegno alla protezione dei minori. Ritenevo che il sistema penale italiano, come quello di molti altri Paesi, fosse eccessivamente rigido e inadeguato nel trattare i giovani che commettevano reati.

Non si poteva ignorare che l’età, le circostanze sociali, e familiari, e la mancanza di maturità giocassero un ruolo fondamentale nei comportamenti devianti. Ho sempre sostenuto che un minore in carcere è un fallimento per la società tutta. Faticosamente i risultati iniziarono a vedersi: il mio lavoro e quello di altri riformatori contribuirono a un cambiamento graduale nella mentalità, portando infine all’Istituzione dei tribunali per i minori (Regio Decreto Legge n. 1404 del 20 luglio 1934) e a una più chiara differenziazione tra i reati commessi da giovani e quelli commessi da adulti».

Lei ha ispirato generazioni di donne a perseguire la libertà, le proprie aspirazioni nonostante le avversità sociali. Il mondo di oggi è più facile di allora per il genere femminile?

«È più facile, ma si è perduta la forza di combattere per raggiungere il miglior equilibrio possibile. Assistiamo a una svogliatezza generale e generalizzata verso una vita più motivata. Ci perdiamo in questioni che, per parte mia, sono da politicamente corretto, non da sostanzialmente concreto. Il rischio che vedo è di vedere travolti e stravolti i traguardi che con tenacia abbiamo raggiunto».

Siamo ormai lontani dagli anni in cui alle donne era preclusa l’iscrizione all’albo degli avvocati, ma non possiamo dirci arrivati ancora alla tanto agognata parità lavorativa. Lei cosa ne pensa?

«Al 31 dicembre 2023, in Italia risultavano iscritti alla Cassa Forense 236.946 avvocati, con una leggera prevalenza di uomini (circa 125.000) rispetto alle donne (circa 111.500). Tuttavia, tra gli avvocati sotto i 34 anni, le donne rappresentano il 57,5%, mentre nella fascia 35-44 anni costituiscono il 55,3%. Il dato è rincuorante se si guarda alle percentuali del passato. È però indicativa la percentuale di rinuncia delle donne ad esercitare la professione proprio nell’età in cui pare a tutte loro aprirsi il dilemma tra carriera o famiglia. L’auspicio è che non si perda la capacità e la voglia di rendersi sempre e comunque parte attiva in quella lenta e secolare progressione verso la “società civile”».

– Lidia Poët

Fortunatamente, non tutti mi erano ostili. Alcuni intellettuali e progressisti sostennero la mia causa e videro nella mia battaglia una speranza per il futuro per donne italiane. Anche se erano voci isolate, il loro appoggio mi ha dato forza. Quando la Corte d’Appello annullò la mia iscrizione, non mi arresi. Continuai a lavorare nel campo legale, trovando altre vie per mettere le mie competenze al servizio degli altri, in particolare dei più deboli, come donne e minori. La strada era in salita, ma la mia convinzione che le donne avessero diritto di accedere a ogni professione mi spinse a continuare

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