Le parole contro l’indifferenza: uno scudo per la solidarietà
Quand’è che abbiamo smesso di indignarci? Di vedere chi vuole scavalcare muri e mari e guardare chi li vuole tenere lontani. Chi lotta per una fede e viene ucciso, e chi viene uccisa solo perché esiste. Quand’è che abbiamo scelto di allontanare lo sguardo dalla sofferenza dei nostri figli, scritta nella magrezza dei loro corpi malati di anoressia e solitudine?
È subdola la nostra indifferenza. È un piano inclinato, ma impercettibilmente. È una nebbia sottile che avvolge la coscienza, ma lentamente. «Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano», disse un giorno da un pulpito Martin Niemöller, pastore protestante nella Germania di Hitler. «Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare».

Presero anche me, ogni volta che ho voltato lo sguardo e ho smesso di protestare.
Qui puoi farlo, sembra dire questa prima pagina. Guardarti, guardare fuori. Le sette lettere contro l’indifferenza dicono che non c’è che un modo: dire. Un giornale serve a questo. A cercare e a dire, insieme. Quando ci riesce, come scrive Alessandro, quella di un giornale è «una voce stupenda». Nessuno, qui al Bullone, è un’isola.
– Francesco Gaeta
“Quand’è che abbiamo smesso di indignarci? Di vedere chi vuole scavalcare muri e mari e guardare chi li vuole tenere lontani. Chi lotta per una fede e viene ucciso, e chi viene uccisa solo perché esiste. Quand’è che abbiamo scelto di allontanare lo sguardo dalla sofferenza dei nostri figli, scritta nella magrezza dei loro corpi malati di anoressia e solitudine?“