Chi è Filippo Grandi
Filippo Grandi è Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) dal 2016. In precedenza, dopo una lunga carriera in ONG, è stato a capo dell’UNRWA che si occupa di tutelare e migliorare le condizioni dei rifugiati palestinesi.

Illustrazione di Chiara Bosna.
Grazie al suo lavoro – come racconta anche nel suo libro – ha potuto conoscere contesti, persone e condizioni di vita diversi, in tempi e luoghi anche distanti. Che cosa ha imparato sulla libertà?
«Ho fatto per anni un lavoro che mi ha portato a contatto con persone private di ogni genere di libertà: della libertà di essere sé stesse, di esprimersi, di scegliere. Esistono più modi, diversi tra Paesi e tra persone, di avere o perdere le proprie libertà. C’è un valore assoluto, anche codificato nelle convenzioni, e ci sono contesti che non lo rispettano in varie forme. Ci sono anche situazioni opposte. Negli ultimi 15 anni, la mia organizzazione si è impegnata a difendere persone che fuggono e chiedono asilo per motivi che in passato non erano trattati da questo punto di vista: violenza domestica, orientamento sessuale, discriminazione, o violenze da parte di gruppi criminali, e non di Stati. Affrontiamo la privazione della libertà in modi diversi da come facevamo prima, perché questo ambito ha uno spettro amplissimo».
Qual è, se per lei c’è stato, un momento o una situazione che ha cambiato la sua idea di libertà?
«Ero in Ucraina un paio di settimane fa, a Kharkiv, che è una delle zone più colpite dai bombardamenti russi. Molte case sono distrutte, fa freddo, non c’è lavoro. Ho incontrato un gruppo di donne di una comunità che si riuniscono per parlare dei loro problemi di donne in situazioni di conflitto, per capire quali fossero i loro bisogni. Una di loro mi ha detto: “Quello che vorrei io è poter andare al mare”. Era consapevole che chissà per quanto tempo, non potrà più andare al mare perché c’è la guerra, non ci sono soldi e manca la benzina».
Secondo lei, alla luce di quello che ha appena raccontato, che rapporto c’è tra confini e libertà?
«Io ho passato tutta la vita sui confini. Ora sono appena stato in Siria: i siriani sono fra le più grandi popolazioni rifugiate. E adesso magari alcuni torneranno, però tutto si gioca su questi confini. Il confine è una creazione umana che è diventata, in un certo senso, una necessità. Ha aspetti positivi di sicurezza, di protezione, ma è anche una barriera fra i popoli che i rifugiati devono varcare per sperare di essere accolti in un Paese diverso dal proprio, ed essere finalmente liberi. I confini sono il punto che i rifugiati superano per trovare sicurezza, ma anche un ostacolo gigantesco se vengono ricacciati indietro. I confini sono molto ambigui in termini di libertà, però viviamo in un mondo in cui contano: esistono e gli Stati li difendono. C’è da sperare che siano una protezione per le persone che stanno al loro interno, e non una privazione della libertà per chi vi cerca rifugio».
Per anni lei si è occupato di persone che hanno perso la libertà di stare nelle proprie case. Che cosa significa oggi per lei poter tornare a casa?
«Ho appena finito di fare un viaggio esplorando la possibilità del ritorno per milioni di siriani che sono fuori dal loro Paese anche da 14 anni, dal 2011. L’ho visto in Afghanistan, nel 2002, quando i talebani sono andati via la prima volta e milioni di afgani sono tornati indietro. È il momento più emozionante per chi fa il mio lavoro. Si capisce innanzitutto una cosa: i rifugiati – spesso visti come persone che vogliono andare via – sono costrette ad andarsene, ma hanno come desiderio principale quello di tornare a casa. È chiaro che sono situazioni complesse, perché in genere questi Paesi, come l’Afghanistan allora, come la Siria oggi, escono da conflitti terribili, quindi sono devastati. È molto complicato tornare a casa.
Ci sono poi altre costrizioni, anche quando la libertà di tornare è ripristinata. È il caso della Siria oggi: servizi inesistenti, infrastrutture crollate, devastazione della guerra, gente senza casa e lavoro. È un momento bellissimo ma anche difficile. Io credo che oggi quella della Siria sia una rara situazione in cui questo ritorno può essere possibile, malgrado tutti i rischi. È cruciale sostenerlo, è la prova che le persone rifugiate vogliono recuperare la libertà di stare a casa propria».
A livello concreto, chi può aiutare e come a rendere le persone di cui lei si occupa più libere?
«Dopo l’Olocausto e gli orrori degli anni precedenti, il mondo ha voluto stabilire un sistema di relazioni internazionali più giusto. Si basava sulle Nazioni Unite e su convenzioni importanti, come quella dei diritti umani. Non era un sistema perfetto, ma permetteva di gestire i conflitti. Non era un mondo molto libero, c’erano la Guerra fredda e tante dittature, però c’era un sistema che garantiva almeno una specie di equilibrio. Questo sistema si è rotto. Penso che abbia cominciato a rompersi circa trent’anni fa, per vari motivi.
Dopo la Guerra fredda c’è stato un grande momento in cui si pensava che tutto il mondo sarebbe stato libero. Gli anni 90 sono stati anni difficili, però di grande euforia. Io ero giovane, mi ricordo che si pensava che saremmo andati tutti verso la libertà, erano cadute le dittature latinoamericane e i regimi sovietici. Poi il sistema si è squilibrato di nuovo: 11 settembre, grandi crisi finanziarie, Covid. Oggi ideologie egoistiche, come il populismo, hanno prevalso. Dobbiamo cercare di ritornare a quelle speranze e ambizioni. Viviamo ancora in un mondo di Stati e di confini, non abbiamo molta scelta. Gli Stati devono andare d’accordo e quindi, in un mondo frammentato e multipolare, bisogna sperare che lentamente si formino dei nuovi equilibri per ripristinare i meccanismi di pace.
Però siamo in un mondo connesso, dove tutti possiamo fare la nostra parte. Non dobbiamo aspettare che il cambiamento venga dall’alto, dobbiamo promuovere noi i nuovi meccanismi di pace. Oggi chiunque può farsi sentire, ma bisogna farlo nel modo giusto: usando questi enormi strumenti di comunicazione in modo ragionato, facendo la nostra parte, perché il mondo sia meno aggressivo e meno brutale.
E poi c’è una cosa fondamentale: l’Italia è una democrazia, si può votare. A me dispiace vedere che ormai vota meno della metà delle persone e che molti giovani non lo fanno. Capisco che ci sia disillusione, ma quello è il modo per contribuire alla libertà di esprimersi, sono canali che oggi abbiamo e che dobbiamo usare. Serve partecipare al processo politico. Il voto è il modo meno faticoso e più facile di partecipare, ed è anche il più efficace. Ai giovani direi: se volete contribuire alla libertà, partecipate anche in modo minimo, con il voto».
È stato in molti contesti in cui la libertà e la pace sembravano impossibili, ma ha continuato a lavorare per raggiungerle. Qual è un momento che le ha fatto credere che la libertà fosse possibile?
«Nel 2001, quando il primo regime dei talebani è finito in Afghanistan, io lavoravo in quella regione. Mi trovavo lì proprio qualche giorno dopo la caduta, e ricordo che nel nostro ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite, sotto i talebani le donne non potevano lavorare. Appena il regime finì, le cinque colleghe donne che erano state per anni chiuse a casa sono tornate in ufficio per la prima volta. Una di loro è entrata nell’ufficio, si è tolta il burqa, quel velo pesantissimo che prima era obbligatorio, e l’ha buttato da una parte all’altra di quella grande stanza. Anche se poi l’abbiamo disattesa, nel volo di quel burqa c’era la speranza della libertà».
Che speranza ha per il futuro?
«Viviamo in tempi duri, non solo per le guerre e per la sofferenza. Le persone in fuga ogni anno aumentano, siamo a più di 120 milioni: il numero è più che raddoppiato in questi ultimi anni. Le ragioni per essere ottimisti sono poche, però possiamo guardare a quello che è successo in Siria, con la caduta del regime. Certo, non è soltanto una rivoluzione idealista, ma i siriani hanno creato le premesse per una nuova libertà. Bisogna aiutarli, la libertà che hanno acquisito è molto fragile, bisogna prendere anche qualche rischio, investire, togliere le sanzioni, aiutarli a fare un percorso, ma lasciare che siano loro a farlo. Troppe volte abbiamo visto, con la fine dei conflitti, la finestra della libertà aprirsi e poi richiudersi perché non abbiamo aiutato a tenerla aperta. Quello che è successo in Afghanistan purtroppo succederà anche in Siria, se non abbiamo un po’ di coraggio. Le chance di riuscita della Siria sono forse 51 su cento. Noi non dobbiamo stare con il 49, dobbiamo investire in quel 51 perché cresca. Non è ottimismo alla cieca. Si sceglie l’ottimismo perché alla fine diventi realtà».
– FIlippo Grandi
“Oggi ideologie egoistiche, come il populismo, hanno prevalso. Dobbiamo cercare di ritornare a quelle speranze e ambizioni. Viviamo ancora in un mondo di Stati e di confini, non abbiamo molta scelta. Gli Stati devono andare d’accordo e quindi, in un mondo frammentato e multipolare, bisogna sperare che lentamente si formino dei nuovi equilibri per ripristinare i meccanismi di pace.”