My Country Talks: il “tinder” del dialogo che sfida le bolle social
Lo chiamano il «Tinder» del dialogo politico. Il vero nome è My Country talks. Fa incontrare, faccia a faccia, chi non la pensa allo stesso modo, anzi, in modo opposto, cioè quelli che non hanno mai dubbi e che si credono sempre dalla parte della ragione su immigrati, rapporti fra i sessi, ambiente, diritti civili, il lavoro dei giovani. È una piattaforma digitale lanciata qualche anno fa dal prestigioso settimanale tedesco Die Zeit (500mila copie, diretto dall’italo tedesco Giovanni De Lorenzo).
My Country talks è parte di Zeit Online (350mila abbonati che producono da 80 a 100mila commenti ogni mese), diretta in particolare a un’età compresa tra 20 e 29 anni. La filosofia giornalistica che sta sotto il progetto è che i media devono innanzi tutto riconoscersi nel XXI secolo come «piattaforme per le relazioni sociali».
Sara Cooper, direttrice di questa iniziativa avviata in Germania e ormai esportata in molti Paesi europei, chiarisce la missione: «Bisogna essere capaci di trattare i punti di vista divergenti senza alimentare la polemica. Occorre allenarsi a rispettare le opinioni degli altri, accettando le regole di un dibattito pacato anche nel contraddittorio».

internazionale.
Può spiegare perchè partecipare a My country talks?
«Proporrei anch’io una domanda: se avessi un’ora di tempo per parlare con qualcuno che ha idee completamente opposte alle tue, che cosa gli diresti? Offriamo un confronto faccia a faccia, da soli, per parlare di politica, diritti, ecologia, migranti, guerra e pace. Per ascoltarsi e cercare di capire, anche se non per forza, chi siede dalla parte opposta. E soprattutto, per uscire da quella “bolla” in cui viviamo immersi e che troppo spesso assomiglia a una prigione».
Che differenza c’è tra il vostro format ed i social media, ormai tradizionali?
«La differenza più grande tra il nostro format e i social media è che i nostri partecipanti hanno una conversazione immediata che non è fatta di sì o no, ma di parole ed emozioni. I social media sembrano una piattaforma per il dialogo e lo scambio, ma non ricreano l’esperienza di una conversazione. Non sai con chi stai parlando, quando lasci il tuo commento o rispondi non sai mai se la persona a cui stai rispondendo sia ancora lì. Penso che le persone si sentano incoraggiate a scrivere cose sui social media che non direbbero mai in faccia. Il formato one-on-one tende a far emergere il meglio nelle persone, ed è per questo che i nostri partecipanti hanno un’esperienza così positiva».
Come entrano i giornalisti in questa impresa?
«Con l’arrivo dei social media e degli algoritmi, i media stanno evolvendo e operano nello spazio di un giornalismo partecipativo. Un media non è più solo un quotidiano o periodico dove i giornalisti scrivono e i lettori comprano, leggono e buttano il giornale. Oggi le relazioni tra i media e i lettori sono numerose e moltiplicate dai canali digitali. Noi coinvolgiamo i giornalisti nel dialogo tra chi sta agli opposti dello spettro politico, ed ha la forza di guardare in volto il suo interlocutore. Emergono storie e racconti che i giornalisti raccolgono e poi utilizzano nel loro lavoro».
Come trovate i partecipanti?
«Die Zeit on line ha creato la piattaforma dove si chiede di rispondere a 10 domande su temi polarizzanti. Pensiamo a quelli che hanno diviso gli elettori della campagna elettorale negli Stati Uniti. Chi risponde deve lasciare un proprio profilo e l’autorizzazione a usare questi dati. Un algoritmo crea dei match (delle coppie di persone) che manifestano una visione opposta su un tema, invitandoli ad incontrarsi per scambiare i propri punti di vista per un paio d’ore. Ognuno dei partecipanti può scegliere dove incontrarsi, in casa, in un luogo pubblico. Oppure sedersi allo stesso tavolo anche nel corso di eventi pubblici che noi abbiamo organizzato in Germania ed in altri Paesi europei».
Con quali strumenti e paletti viene impostata la conversazione tra i due partecipanti?
«Partecipare è molto semplice: servono un telefono o un computer e una connessione internet. Chiediamo solo di rispettare le regole del dialogo. Crediamo che spiegare le polemiche senza caricature, può evitare la polarizzazione di opinioni. Di fronte all’emergenza di un vocabolario politico, mediatico e digitale che cerca lo scontro, cerchiamo di tutelare i valori democratici necessari alla società».
Che risultati avete ottenuto con My Country talks?
«Abbiamo coinvolto più di 250mila persone in conversazioni faccia a faccia in trenta Paesi. Abbiamo raccolto le proposte dei partecipanti a discutere su molti problemi sociali ed economici e centinaia di proposte di soluzione. Dal momento del lancio dell’iniziativa, i numeri mostrano che la comunicazione tra due persone permette di sviluppare empatia e la capacità di uscire da un approccio basato sullo scontro frontale e binario della realtà. L’80% dei partecipanti ha dichiarato di essere soddisfatto della conversazione e il 60% è rimasto in contatto con il suo interlocutore dopo l’incontro. Il 90% sarebbe pronto a fare e a consigliare una conversazione con un’altra persona».
Lo scopo finale è far cambiare idea alle persone?
«No, lo scopo finale è prendersi del tempo per ascoltare un’altra persona. E da lì gli effetti possono essere molteplici. Prima di tutto creare empatia fra le persone».
Che cosa avete imparato da questi incontri a due?
«Che bisogna anche mettere in conto i fattori culturali. In Germania hanno partecipato molti più uomini, al contrario, in Francia hanno aderito più donne. Ma si può capire: quando ti propongono d’incontrare uno sconosciuto che la pensa diversamente, forse le donne si sentono più minacciate. Per questa ragione organizziamo delle giornate e degli eventi per creare un quadro più sicuro, anche se gli incontri devono avvenire senza mediazione e in maniera autonoma».
L’anno scorso avete organizzato un progetto Europe talks: che differenza c’è tra le conversazioni in un solo Paese e quelle tra Paesi diversi?
«Le conversazioni transfrontaliere sono diverse dai nostri programmi nazionali perché si estendono sempre al di là della discussione politica. La magia di Europe Talks è stata dare uno sguardo alla vita quotidiana autentica di qualcuno in un contesto diverso. Quando qualcuno dalla Finlandia può chiacchierare dal vivo con qualcuno dalla Grecia sui loro hobby o su cosa mangiano a colazione, è difficile rifiutare l’incontro. In passato, la lingua è sempre stata il principale ostacolo per i colloqui europei o i colloqui mondiali, rispetto ai nostri programmi nazionali. La lingua di partecipazione è l’inglese, quindi questo esclude un bel po’ di persone. Questo è il primo anno in cui siamo stati in grado di valutare una selezione di piattaforme di video chat che offrono traduzione simultanea, quindi sono entusiasta di vedere che la barriera diventerà più piccola in futuro».
Come è finanziata la vostra piattaforma?
«My Country Talks è un’organizzazione indipendente senza scopo di lucro, affiliata alla casa editrice Zeit; abbiamo quindi ricevuto finanziamenti dalla Commissione europea, ma Zeit Online non ne ha ricevuti. Tuttavia, in Europa esistono altri esempi di media che hanno ricevuto finanziamenti pubblici e mantengono l’indipendenza giornalistica e un elevato livello di integrità. So che il panorama dei finanziamenti, nonostante le sue lacune, è speciale in questo senso. Spero che questo possa fornire un modello per il finanziamento pubblico ai media senza compromessi».
– Sara Cooper
“Abbiamo coinvolto più di 250mila persone in conversazioni faccia a faccia in trenta Paesi. Abbiamo raccolto le proposte dei partecipanti a discutere su molti problemi sociali ed economici e centinaia di proposte di soluzione. Dal momento del lancio dell’iniziativa, i numeri mostrano che la comunicazione tra due persone permette di sviluppare empatia e la capacità di uscire da un approccio basato sullo scontro frontale e binario della realtà.”