Rabbia, Rancore, Rimorso. La Sindrome della R

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Di Alberto Figliolia

Rabbia, Rancore, Rimorso, Rimpianto: la Sindrome della R.

Ricostruzione, Riconciliazione, Rinascita, Redenzione (concetto, quest’ultimo, declinabile anche in senso laico; o, se preferite, riabilitazione): l’antidoto contro quelle erre di stampo psichico-sentimentale negativo.

E ancora, R di reato. Oppure R di ricordi, perfetta liaison con la propria natura ambivalente, fra diversi universi. I ricordi possono essere dolci o amari, consolatori o devastanti. Soprattutto per chi è in carcere a scontare una pena, conseguenza di un’azione che può aver prodotto danni iRRepaRabili alla società, ad altre persone e famiglie.

Ci sono vittime e parenti di vittime. E vi sono «carnefici», artefici di reati di sangue, o a ogni modo duri e spietati, che hanno cancellato vite e provocato incommensurabile dolore ad altri esseri umani. Chi è detenuto sconta anche questo stillicidio e ricatto esistenziale, il buio interiore, il peso immane delle proprie condotte, con il rischio, poiché prevale l’idea della mera punizione, di non acquisire consapevolezza del guasto, spesso incalcolabile, prodotto.

Però esiste il Progetto Sicomoro, promosso dalla Prison Fellowship Italia Onlus e patrocinato dal Ministero della Giustizia, che fa incontrare all’interno delle carceri parenti delle vittime e autori di reati pesanti. Ai parenti, sbalestrati e proiettati, senza colpa, in un assurdo, incomprensibile e torturante mondo di assenza, è consentito di provare ad abbattere il muro della rabbia, dell’odio, dello spaesamento, del risentimento, tutto ciò che paralizza la ripresa di una vita piena e non tormentata. Un’ elaborazione del lutto, se si vuole.

Alle persone detenute, poste innanzi a quella sofferenza genuina, rovinosa, viene permesso di cogliere il senso di scelte erronee, devianti, e di riappropriarsi di una coscienza altrimenti obnubilata. E se quelle scelte sono state ineluttabili, giacché indietro non si può tornare per rimediare al male compiuto, può scattare il meccanismo virtuoso di una rivelazione, di un riscatto. E la mente s’illumina come l’orizzonte a una fulgida alba… Parliamo del riconoscimento reciproco, della comune umanità, per un rinnovato patto di convivenza. Compassione, nel suo significato più puro. Empatia, oltre la colpa.

Non è certo un percorso semplice. Semmai un itinerario doloroso, ma necessario, come ben spiega Elisabetta Cipollone, che un giorno di tanti anni fa ha perduto un figlio per un inconsulto ed evitabilissimo incidente-pirata. Elisabetta, già partecipante al Progetto, ne è divenuta una mediatrice o, meglio, una facilitatrice di dialogo fra le parti in causa. «Il dolore subìto e quello provocato sono le due facce della stessa medaglia. Sempre di dolore si tratta. Devi cambiare direzione ed entrare in contatto con il patimento degli altri. Si tratta di un cammino salvifico sia per le vittime che per i detenuti. C’è un grandissimo senso di umanità in questi incontri: per ritrovarsi. Quando si vede la mamma o il fratello di una vittima che racconta il suo vissuto, quando sei costretto a guardarlo negli occhi… Come il cauterio del chirurgo che arriva in profondità e brucia, ma risana. Così si sciolgono i nodi della rabbia, del dolore, dell’odio, per la consapevolezza, per una luce nuova nei cuori». Pietas.

Va detto altresì che i carcerati che aderiscono al Progetto Sicomoro non lo fanno in maniera opportunistica dal momento che la loro partecipazione non dà luogo a benefici di sorta. Giustizia riparativa. E questa erre ha un sapore soave. «Perché al Male puoi porre un argine, ma il Bene non si può fermare», conclude Elisabetta, mater dolorosa, madre coraggio, che ha saputo guardare negli occhi l’altro e aprirgli l’anima. Alla ricerca del Bene sepolto e dell’armonia perduta.

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