Di Alice Nebbia
Il professor Gustavo Pietropolli Charmet è uno dei più illustri psichiatri e psicoterapeuti italiani, fondatore dell’Istituto il Minotauro, cooperativa che da molti anni promuove servizi di consulenza e psicoterapia per adolescenti e famiglie in difficoltà.
Nell’intervista che il professore ha rilasciato al nostro mensile, abbiamo riflettuto sui recenti eventi di cronaca nera che si sono tristemente susseguiti in Italia e negli USA.
Professore, ultimamente abbiamo assistito a numerosi episodi di odio e di violenza. Pensiamo, negli Stati Uniti, l’odio contro gli afroamericani e la violenza nelle strade, in Italia i fatti di Colleferro, le due ragazze inglesi violentate in Basilicata, la ragazza uccisa dal fratello perché amava un trans. Cosa sta succedendo? Si può trovare una spiegazione?
«L’odio, cioè la possibilità di esprimere il proprio sentimento di ripulsa molto forte nei confronti di una parte della popolazione o di un avversario, è sicuramente più frequente, autorizzato ed esibito oggi che in passato, quando il “galateo” sociale e nazionale comportava espressioni d’aggressività più miti e caute. Adesso c’è quasi una rincorsa verso un’espressione libera ed esagitata di sentimenti d’odio e d’istigazione a quest’ultimo; un fenomeno quasi contagioso che porta all’arruolamento di altre persone, d’interi paesi o intere masse nel dare la caccia a quello che viene ritenuto il responsabile degli eventi disgraziati che sono successi».
Da Cosa Nasce La Violenza
Perché la violenza di periferia, di «margine» diventa spesso oggetto di spettacolarizzazione?
«Perché credo sia diffuso il presentimento che quello che sta succedendo nelle periferie delle grandi metropoli urbane è un segnale di una sorta di rivolta. Un sentimento di ribellione rispetto alla violenza di cui le periferie e i giovani membri che ne fanno parte sono oggetto. Ragazzi derubati della possibilità di aver accesso alle scuole, al lavoro, al denaro, ecc.. Penso quindi che la spettacolarizzazione di questa marginalità, di questa devianza, sia l’espressione del timore che possa avverarsi quello che forse inevitabilmente si avvererà, come purtroppo è già avvenuto in altre metropoli del mondo».
La scuola e la formazione possono aiutare a educare ad atteggiamenti non violenti, ma l’economia produce primati ossessivi e comportamenti che fanno male… Mancano i ponti tra oppressi e oppressori?
«La scuola, in linea di massima, dovrebbe mettere a disposizione dei ragazzi la possibilità di organizzare, ove possibile, una pace conveniente, vale a dire far comprendere all’individuo di non accettare di essere odiato o di odiare, ma di andare alla ricerca di uno scambio pacifico e adeguato per tutti. È chiaro che se poi il divario che esiste al di fuori della scuola, in termini di possibilità evolutive, di crescita e di realizzazione personale è enorme, i motivi di risentimento e d’invidia prevalgono sulla possibilità che la scuola mette a disposizione di cercare di organizzare una pace conveniente, che è sempre migliore rispetto alla guerra».
Lockdown E Nuovo Odio
Un secondo lockdown potrebbe portare un’ulteriore ondata di odio?
«Personalmente non credo che il lockdown possa determinare nei giovani un sentimento di odio verso la cultura degli adulti che senza nessuna spiegazione, nessun riguardo e nessun risarcimento toglie loro la scuola, lo sport, e altro. Può darsi che ci sia una maggiore consapevolezza, in una seconda, eventuale e disgraziatissima ripetizione del lockdown e si possa scatenare un sentimento di rivolta che non c’è stato assolutamente nel primo caso. Anzi, nel periodo di reclusione forzata la collaborazione dei giovani ha stupito e ha portato a comprendere che per gli adulti il fatto di essere costretti a stare a casa è stato vissuto come una cosa senza scampo, per i giovani, invece, è stato rifugiarsi negli spazi e nelle comunicazioni sociali per ritrovare i propri gruppi e i propri amici».
Odio collettivo, personale, odio anche verso chi non si conosce… da dove si genera tutto questo?
«La questione è complessa. Molti psicologi e psicanalisti sono dell’opinione che il bambino nasce con un’aggressività innata e che l’educazione rappresenti il tentativo di mettere a regime l’aggressività originaria mutandola in forza, vigore e determinazione. Io, sinceramente, non sono mai riuscito a condividere questa che è solo un’ipotesi non confermata dalle ricerche. Sono piuttosto convinto che l’odio si diffonde perché rappresenta la massima della semplificazione, un po’ come avveniva in passato con le streghe che venivano bruciate perché si credeva fossero responsabili di sciagure. Di volta in volta, nella storia, alcuni gruppi umani sono stati odiati perché in qualche modo si pensava portassero disgrazie o diffondessero malattie. Ritengo che l’odio si diffonda mediante il contagio, non perché è qualcosa d’innato nell’individuo».
Ci sono dei tabù su questo tema?
«I tabù dovrebbero sempre impedire e inibire l’espressione della violenza. Le divinità, generalmente, sono contrarie all’uso della violenza, però possono esserci dei tabù, dei miti negativi, che possono essere assunti proprio perché contagiosi e in grado di semplificare la complessità del reale, offrire delle spiegazioni a portata di mano e addirittura suggerire delle soluzioni: cacciare, dare la caccia al nemico, all’avversario, all’untore…».
Supremazia, egocentrismo, sopraffazione. Secondo Lei, i giovani sono senza maestri, senza bussola o senza famiglia?
«L’educazione e l’infanzia contano nello sviluppo dei sentimenti e nella messa a regime di certe pulsioni, ma credo valga di gran lunga più il contesto, sulla storia di vita. Ci possono essere bambini buoni, remissivi e obbedienti che poi si integrano in un contesto di gruppo dove invece la violenza e il bullismo prevalgono e quindi emerge in loro un senso di vendetta, sentimento che viaggia di pari passo all’odio. Per creare odio ci deve essere qualcuno che sobilla e getta semi nocivi che poi diventano contagiosi».
Competizione E Individualismo
Quanto conta l’ossessione di essere i primi? A scuola, nello sport, in strada, nel mondo del lavoro?
«La società capitalistica è sempre stata altamente competitiva. Negli ultimi anni, numerosi aspetti nell’ambito educativo si sono esasperati e il livello di competizione fra maschi e femmine è alto in alcuni settori e, conseguentemente, molti non lo reggono. Viviamo anche in una società in cui la crisi del patriarcato ha messo tra parentesi la forza del Super-Io, della legge morale e in qualche modo tutto vale. E allora se tutto vale e uno ha in mente di primeggiare, può farlo sia con le buone sia con le cattive e, generalmente, queste ultime sono più rapide».
Noi del Bullone raccontiamo sempre di noi, dopo e durante l’esperienza della malattia, ma spesso ci scontriamo con un Io più forte…
Come ne possiamo uscire? E soprattutto, cosa possiamo fare?
«Ci sono aspetti molto complessi della malattia, per esempio la convalescenza, la riabilitazione e il reinserimento nella vita quotidiana. Tutti concordano che ci vuole tempo e supporto nell’accogliere le zone di fragilità che la malattia genera; come se coesistessero due io, uno interno e uno esterno. Quest’ultimo tende a scoraggiare il tentativo di aver accesso a livelli più alti d’autonomia, d’intraprendenza, studio e lavoro e indica la strada di una mesta convalescenza in cui si rimane lì, con il rischio di rimanere convalescenti tutta la vita, creando una situazione ancora peggiore della malattia stessa».
Lei ha scritto nel suo libro, Il Motore Del Mondo, come sono cambiati i sentimenti, come i ragazzi del passato erano più abituati a sperare…
Io sono giovane, sono stata malata e so che cosa vuol dire sperare… i giovani di oggi non sperano più?
«I giovani degli anni cinquanta e sessanta erano supportati da ideologie e da sogni collettivi che li sostenevano nell’organizzare una propria speranza. Individui che magari da soli non ce l’avrebbero fatta, ma unendosi al gruppo, la speranza poi si accendeva anche per loro. Devo dire però che le speranze innescate dalle ideologie e dalle grandi narrazioni del passato finivano spesso in grandi delusioni. Forse è meglio non lasciarsi inebriare dalle promesse delle ideologie e costruire pian piano, ognuno, la propria speranza. Lavorare per costruire la propria identità, la propria soggettività, la propria libertà. Anche se oggi, far questo, è più difficile. Però vedo un ritorno nella capacità di sperare quando i giovani si uniscono pensando di guarire la Terra, di risanarla dalle sopraffazioni che le sono state inflitte dai loro predecessori. Di curarla. Io lì vedo un nocciolo di speranza. Perché tutte le volte in cui ci si prende cura, in qualche modo, si spera: si crede di avere il potere di dare la vita laddove tutto sta morendo».