Recovery Found e lo spostamento sulla YOLO Economy.

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Nicola Saldutti interpretato da Chiara Bosna
Nicola Saldutti interpretato da Chiara Bosna

Al colloquio con Nicola Saldutti, capo redattore Economia del Corriere della Sera. «Draghi è determinante», il Recovery Found e gli interventi su salute, giovani e donne.

Di Annagiulia Dallera

Quando parli con Nicola Saldutti, caporedattore dell’economia al Corriere della Sera, avverti una grande conoscenza della materia e una passione sconfinata per gli argomenti di cui tratta tutti i giorni. Ci siamo fatti guidare da lui per comprendere temi importanti e attuali come il Recovery Fund e le prospettive economiche in cui questo ci proietta.

Sul New York Times è apparso l’acronimo YOLO (You Only Live Once). Che cos’è la Yolo economy?

«Ho la sensazione che in questa fase, soprattutto i giovani vogliano essere coerenti. Prima la ricerca di un lavoro era solo funzionale al reddito, all’autonomia economica. Adesso si vuole contribuire alla vita del pianeta, o almeno a non danneggiarlo. Questo sta comportando qualcosa che per le aziende era inaspettato fino a qualche tempo fa: sono i giovani a scegliere in quale azienda lavorare. Sono i giovani che decidono di lavorare in un’impresa rispetto a un’altra, perché è più coerente con i loro principi. È un cambiamento culturale molto importante».

Quali saranno i nuovi lavori del futuro?

«Uno studio del World Economic Forum prevede che tra 10 anni si faranno dei lavori che oggi sono impensabili. È quello che è accaduto con la corsa ai data analyst, data scientist, figure che nessuno pensava sarebbero state necessarie. Ormai il lavoro va di pari passo con l’innovazione tecnologica e sociale, con la domanda di un pianeta più sano. Ci sarà sempre più bisogno di capacità trasversali “miste”: sarà necessario avere competenze tecniche che dovranno essere accompagnate da una grande curiosità e da capacità di adattamento».

Un nuovo cambiamento con il Recovery Found

Come si potrà ottenere tutto questo?

«Il mondo delle imprese è in continua trasformazione e avrà bisogno di persone, sia giovani che esperte, che da una parte sono capaci di intuire il cambiamento e dall’altra di generarlo. Il livello di coinvolgimento nei progetti delle imprese sarà sempre più forte. Sarà difficile pensare che un individuo sia solo un tassello di un grande organigramma. Le idee del singolo saranno necessarie all’azienda per restare competitiva».

Perché è importante il Recovery Fund?

«Per la prima volta l’Europa ha predisposto un piano che coinvolge tutti. Sono state attivate risorse complessive per 750 miliardi di euro, dei quali l’Italia sarà il principale beneficiario con 235 miliardi. Ci sono sei missioni precise che rappresentano le aree su cui i singoli Paesi si devono impegnare con delle riforme. Il punto importante è che l’Europa emetterà per la prima volta il debito comune, cioè dei titoli europei che serviranno a finanziare una parte di questi progetti».

Nel Recovery Plan è stata inserita una clausola per promuovere l’occupazione di donne e giovani. Di cosa si tratta?

«Le donne sono la categoria sociale che ha sofferto di più questa pandemia con il 99% dei posti di lavoro persi. Bisogna trovare il modo di recuperare questa fragilità. C’è un secondo aspetto, riguarda il messaggio trasmesso ai giovani: in molti hanno vissuto una situazione complicata. L’idea che lo Stato e le sue emanazioni periferiche dicano “noi ci fidiamo di voi e puntiamo su di voi”, è un segno importantissimo. Spesso si parla di giovani ma li si fa parlare poco. Stabilire queste due linee guida significa dire al Paese, alle imprese, a chi prende le decisioni che bisogna cambiare».

Perché il Recovery Plan italiano ha privilegiato l’aspetto ambientale?

«È una svolta culturale. Prima l’ambiente era considerato un costo dalle imprese. Da qualche anno, sulla spinta dei giovani e dell’emergenza climatica, le imprese si stanno chiedendo se il modello che stanno utilizzando sia ancora valido. Non è più solo una questione etica e morale, ma è diventata una questione economica. Se tu impieghi meno materie prime, il tuo sistema produttivo diventa più competitivo. Quindi, le aziende si sono ritrovate a modificare i loro processi produttivi».

Nicola Saldutti interpretato da Chiara Bosna
Nicola Saldutti interpretato da Chiara Bosna

Il Green Deal europeo

Ce la faranno?

«La conversione ecologica è promossa dal Green Deal europeo e ancora da più in alto, dai 17 obiettivi indicati dall’ONU. Entro il 2030 bisogna raggiungere determinati target e possiamo dire che le istituzioni internazionali in questo caso stanno facendo da guida. Hanno intercettato un’esigenza che viene dai cittadini e dalle persone che vogliono vivere in un mondo più pulito».

Un altro pilastro importante del Recovery Plan è la digitalizzazione: è arrivato finalmente il momento di essere più competitivi anche in questo campo?

«L’Italia nella classifica DESI è al 25esimo posto su 28. Il divario digitale è ancora molto forte. Siamo il Paese che ha più telefonini, ma è meno digitale di tutti. È un grande paradosso. Credo che sostenibilità e digitale andranno sempre più di pari passo e digitale non dovrà più nemmeno essere un aggettivo. Nessuno dice più “capacità di lettura”. È considerata una condizione necessaria come lo scrivere. Questo dovrà accadere sia per il digitale che per la sostenibilità».

Lei è fiducioso?

«Voglio essere razionalmente ottimista. Il progetto del Ministero dell’Innovazione è di arrivare alla banda larga per tutte le famiglie entro il 2026. Il salto dell’utilizzo delle connessioni a distanza ha portato tutti i settori a dover vivere nella digitalizzazione. Nessuno avrebbe mai detto che la scuola sarebbe stata spostata su uno schermo. Non tutti sono riusciti ad accenderlo quel computer, alcuni non lo avevano, ma non c’è stato spazio per altre alternative. Sarà necessario combinare questa rivoluzione digitale con le competenze umanistiche di cui il Paese è ricco. Questi due elementi sono l’unica formula che consentirà all’Italia di ritrovare la via della crescita».

Una nuova normalità.

C’è il rischio che ci sia la solita corsa al tesoro da parte di ministeri, enti e altre istituzioni?

«Lo sforzo di progettualità, visione, concretezza del PNRR non è mai stato visto prima. Essere in grado di realizzare tutto quello che è stato presentato è una sfida enorme. Nella pubblica amministrazione si stanno facendo degli innesti, da poco c’è stato un concorso per 24.000 nuovi inserimenti. Il governo attuale ha un tale focus sul raggiungimento del risultato, che anche negli uffici più lontani questa energia prima o poi dovrà arrivare. Partiamo da una base arretrata: noi riusciamo a spendere a stento il 30/40% delle risorse europee, e in tutti questi anni i governi hanno più tagliato che speso. La spinta delle imprese e quella delle persone che cercano lavoro dentro questi progetti, renderanno più difficile la vita a chi vuole rallentare questo processo. Non significa che avverrà il miracolo. Bisognerebbe inserire qualche meccanismo di incentivazione per accelerare questi investimenti».

Il piano proposto dal governo italiano è stato promosso dall’Ue: il protagonista di questo successo è Draghi, o si personalizza troppo?

«La prima versione del PNRR risale ad agosto, al Conte bis. Draghi con la sua autorevolezza ha ridefinito priorità e meccanismi. Ha gestito in prima persona la crisi dell’euro, conosce bene le dinamiche economiche e politiche e riesce a far lavorare una compagine politica diversificata. Sicuramente il suo ruolo è decisivo. Il partito dei “non si può fare”, dei critici ad ogni costo, ha perso forza con la sua presenza».

La pandemia può rivelarsi una fonte d’ispirazione per una rivoluzione economica?

«Da un lato la voglia di tornare alla vecchia normalità è molto forte ed è naturale che sia così. Io ho la sensazione che molte persone siano cambiate, che abbiano modificato le loro priorità. L’idea che il pianeta in cui viviamo non è un luogo dove possiamo fare tutto quello che vogliamo, si è concretizzata nella mentalità delle persone e delle imprese. Qualcuno la chiama la “nuova normalità”. L’uomo si riadatta subito e quando le ferite si rimarginano, non le vedi più, a meno che non ci siano cicatrici molto grandi».

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