Intervista a Luciano Attolico, fondatore di Lenovys che ha l’obiettivo di migliorare i risulati e le performance aziendali.
Dai lavori più umili svolti in età giovanile alla carriera manageriale di vertice in diverse aziende, all’esperienza internazionale come consulente free lance, Luciano Attolico è oggi un personaggio di spicco della trasformazione dei modelli aziendali e dei processi di lavoro. Autore, divulgatore e imprenditore nel settore della consulenza e formazione, fonda nel 2009 Lenovys, la società che conduce tutt’oggi con un sogno ben particolare: quello di migliorare i risultati e le performance delle aziende, accrescendo il benessere profondo delle persone all’interno e influenzando positivamente anche la società e l’ambiente esterno.
Quanto è fondamentale l’equilibrio vita privata e lavoro?
«Non credo più nell’equilibrio vita lavorativa e personale, il mondo del lavoro è cambiato. Bisogna armonizzare il tutto con nuovi processi, nuovi modelli per saper entrare e uscire dalle porte lavorative. Anche all’interno delle aziende il welfare è ancora molto legato a iniziative collaterali, non è ancora sistematico. Per questo ho dato vita al modello del Lean Lifestyle, uno stile di vita da adottare dentro e fuori dall’azienda che mette proprio al centro i risultati e allo stesso tempo il benessere fisico, emotivo e spirituale delle persone».

Il lavoro, la pandemia e il benessere
Ci racconta qualcosa in più?
«Oggi il mondo del lavoro è cambiato, la pandemia ha accelerato il processo, perché possiamo lavorare sempre e ovunque, non possiamo più distinguere e suddividere in modo così netto vita lavorativa e personale, né a livello spaziale, né a livello temporale. Bisogna saper armonizzare il tutto con una nuova cultura, nuovi processi e modelli mentali, non possiamo più seguire un’organizzazione del lavoro che si basa su modelli arcaici, come quello di Taylor delle 8 ore. Oggi ciò che conta è creare un patto virtuoso tra persona e azienda. Il modello che ho costruito, soprattutto nel mio ultimo libro edito da Hoepli, Strategia Lean Lifestyle, e che divulgo con attività di formazione e testimonianze, parla di questo, della trasformazione delle aziende attraverso 4 pilastri fondamentali: visione ed esecuzione; agilità e semplificazione; co-responsabilità e autonomia; orientamento al benessere a 360 gradi. Per quanto riguarda il primo, credo che le aziende debbano tornare a sognare e a far sognare. Hanno bisogno di accendere la passione delle persone con sogni quasi ambiziosi, che vanno al di là del confine aziendale. Più un sogno è grande, più questo scatena energie nelle persone, che danno così il massimo di se stesse. Ogni azienda dovrebbe prefiggersi l’obiettivo di cambiare il mondo che la circonda. Con il nostro lavoro, ogni giorno, interagiamo con centinaia di persone, abbiamo il potere di influenzare il loro destino. L’azienda deve essere coraggiosa e audace, così da stimolare le altre persone ad esserlo altrettanto. Il secondo pilastro, snellezza e agilità, dovrebbe costituire il modus operandi dell’organizzazione, che deve domandarsi quali sono le priorità, quali gli sprechi da eliminare, quali gli strumenti digitali più efficaci. Oggi nonostante la tecnologia, il progresso e l’automazione, sprechiamo un sacco di tempo e di energie preziose in cose che non sono importanti. Oggi la “legge” pesce grande mangia pesce piccolo, è sostituita da pesce veloce arriva prima di pesce lento. Il terzo pilastro della Lean Lifestyle company è quello di co-imprendere, di essere co-responsabili, e avere un’elevata autonomia. Far sentire le persone coinvolte, partecipi dell’azienda, non dipendenti ma colleghi, le stimolerà a tirare fuori il meglio di sé. Allo stesso tempo, questo permette una maggior agilità, con la presenza di team autonomi, con confini d’azione ben definiti, capaci di risolvere i problemi e prendere decisioni da soli, il più velocemente possibile. Il quarto pilastro, è orientare l’azienda al benessere in tutte le sue forme: fisico, mentale, emozionale, spirituale. La gente non lavora solo per lo stipendio. Ad esempio, dirsi dei “grazie” più frequentemente, dare dei feedback più sinceri, reali, lega le persone, crea relazioni vere in azienda. Non calpestare le emozioni anche sul luogo di lavoro è molto importante, così come non minare il benessere mentale con un senso di urgenza costante».
Quanto i piani a lungo termine servono nella pratica? Per crescere, quanto è utile saper affrontare l’imprevisto, l’incertezza?
«I business plan, i piani industriali di una volta, sono stati polverizzati. Oggi i cambiamenti intorno a noi, le variabili che partecipano alla vita, sono così tante che non è possibile affidare il successo o l’insuccesso a piani particolareggiati. >È importante avere una visione e un punto di arrivo chiari, darsi delle linee guida per evitare di procedere a casaccio e verificare più velocemente possibile se sei sul percorso giusto. Ma devi avere anche la capacità di essere flessibile, saper misurare i dati per correggere il tiro strada facendo, perché non puoi predire come andrà il mercato. Questo significa anche essere snelli, agili e digitali».

Uomo e tecnologia sul lavoro
Questo numero del Bullone tratta del presente che verrà, del rapporto uomo/tecnologia. Qual è l’azienda che verrà? Quanto è importante tenere un rapporto equilibrato con la tecnologia? Come conciliare l’utilità della tecnologia con una visione umanizzante del lavoro, nell’accelerato processo di digitalizzazione?
«La tecnologia da sola non ha un potere né umanizzante né disumanizzante. È neutra. Siamo noi che ci facciamo vincere da essa perché le diamo troppo potere. È fondamentale usare la tecnologia, ma bisogna usarla a servizio di una visione e un processo chiari. Noi siamo umani per definizione, quindi non possiamo disumanizzarci. Possiamo però acquisire cattive abitudini, anche inconsapevolmente. Per questo suggerisco di fermarci a riflettere sul fatto che siamo noi a guidare la “macchina” e non viceversa».
Le nostre personali esperienze di malattia e l’esperienza collettiva della pandemia ci hanno insegnato la necessità di fermarci e ridefinire le cose importanti. Perché lo si riesce a fare soltanto in occasione di tali eventi?
«Io ho avuto un infarto l’anno scorso. A 50 anni non compiuti mi sono visto cambiare drasticamente la vita dall’oggi al domani. Mi sono rifermato, perché ero già abituato a fermarmi, per chiedermi cosa avessi sbagliato e cosa avrei potuto fare di più. Da questa esperienza ho imparato che la cosa più importante è godersi il viaggio della vita. Non solo siamo tutti a scadenza, ma non ne conosciamo neppure la data. Il fatto di dover lasciare un segno positivo, anche nella dimensione professionale, è importante perché ti spinge verso le cose migliori di cui sei capace. Se siamo ancora qui vuol dire che dobbiamo lasciare il nostro segno».
Che esempio ti senti di dare ai giovani perché migliorino la loro preparazione al lavoro?
«Suggerisco di dare la possibilità ai ragazzi di entrare in contatto con esempi autentici di vita, di persone che si sono scontrate con sogni infranti e realizzati; fallimenti e successi, soprattutto durante il loro percorso scolastico. Credo fermamente che ascoltare, conoscere, condividere altre storie porti a far riflettere più di ogni altra cosa, facendo rendere conto le persone che bisogna allargare lo sguardo, perché c’è sempre qualcosa a cui non stanno pensando. Allo stesso modo i ragazzi hanno bisogno di essere stimolati ed emozionati. La didattica migliore è l’esperienza di vita che fa crescere e aiuta a tirar fuori il proprio talento e a sfruttare al meglio le proprie competenze».