Oggi la post-verità è più grande di qualsiasi persona, esiste in noi e nei nostri leader, è una responsabilità condivisa.
Gli Oxford Dictionaries nel 2016 eleggono la parola «post-verità» parola dell’anno e la definiscono «relativa o denotante circostanze in cui i fatti oggettivi sono meno influenti nel plasmare l’opinione pubblica rispetto agli appelli all’emozione e alla credenza personale».
Ma cosa vuol dire in questo caso il prefisso post?
Intende indicare non tanto l’idea che abbiamo oltrepassato la verità in senso temporale, ma che la verità è stata eclissata e che è diventata irrilevante. D’altronde, siamo, come diceva già molto tempo fa George Orwell nel suo distopico romanzo 1984, «nell’epoca dell’inganno personale» e quindi dire la verità diventa «un atto rivoluzionario».
Ma se è più importante il nostro sentire rispetto a qualcosa, invece che il dato oggettivo che indica che questo qualcosa è vero, come possiamo comprendere dove sta il giusto e di conseguenza fidarci di quello che ci viene detto? Siamo di fronte a una crescente tendenza in cui ci si sente incoraggiati a provare a piegare la realtà per adattarla alle proprie opinioni, piuttosto che viceversa. I fatti possono sempre essere oscurati, selezionati e presentati in un contesto sociale e politico che favorisca un’interpretazione della verità rispetto ad un’altra.

La nascita della post-verità
Oggi la nostra epoca è intrisa di tutto questo sentire, ma come siamo arrivati fin qui? Come è potuto accadere che i «fatti alternativi» abbiano rimpiazzato i «fatti reali» e che i sentimenti abbiano preso maggior peso rispetto all’esistenza?
La prima volta che sentiamo la parola post-verità sono i primi anni 90, nell’ambito della Guerra del Golfo voluta da George Bush. Oggi è di uso comune e tirata in causa troppo spesso. Del resto, le dimensioni di questo fenomeno sono diventate giganti con l’incedere del nuovo millennio. Le statistiche e quindi i fatti veri si contrappongono e lottano contro il sentire delle persone; ecco perché la post-verità non è solo mentire, è qualcosa di più sottile e subdolo, un’operazione di comunicazione in cui oggi molti di noi sono diventati veramente abili.

Manipolazione, fake news e post-verità
Se ogni menzogna ha un pubblico, oggi più che mai l’agenda politica ha un obiettivo di fondo comune: la manipolazione, passare dalla semplice interpretazione dei fatti alla loro falsificazione. A educarci in merito a questo cambio di prospettiva – ne cito due – l’analisi della vittoria di Trump in America e la campagna social media di Matteo Salvini, che appellano alla pancia della gente e alle emozioni come paura e insicurezza e ci raccontano di come la genesi della post-verità sia un mix di nuovi media come i social network e pregiudizi cognitivi, cioè veri e propri difetti psicologici che tutti noi abbiamo.
Negli ultimi due decenni l’esplosione della negazione scientifica su argomenti come i cambiamenti climatici, i vaccini e l’evoluzione, hanno evidenziato nuove dinamiche e tattiche della post-verità con la continua messa in discussione delle teorie, dei motivi e delle competenze degli scienziati da parte di non esperti. In un mondo in cui l’ideologia batte la scienza, l’ascesa dei social media come fonte di notizie ha offuscato ulteriormente i confini tra notizie e opinioni. Serpeggiano fake news, non semplicemente notizie false, ma notizie deliberatamente false, create per uno scopo preciso: indurre la gente a reagire in qualche modo alla disinformazione, sia per fare soldi che per ottenere potere. In entrambi i casi le conseguenze possono essere disastrose.
Oggi la post-verità è più grande di qualsiasi persona, esiste in noi e nei nostri leader, è una responsabilità condivisa.