Ecco a cosa penso, mentre percorro il corridoio del reparto Covid dell’Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano. Inspiro ed espiro. E mentre faccio la cosa più naturale del mondo, penso che affianco a me c’è chi non sa quanti respiri ancora gli restano, perché per i malati di questo reparto ogni boccata d’aria è una conquista.
Secondo i maestri Yogi ognuno di noi nasce con un numero determinato di respiri.
Per allungare la vita, quindi, occorre respirare lentamente, senza voracità. Ecco a cosa penso, mentre percorro il corridoio del reparto Covid dell’Ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano. Inspiro ed espiro. E mentre faccio la cosa più naturale del mondo, penso che affianco a me c’è chi non sa quanti respiri ancora gli restano, perché per i malati di questo reparto ogni boccata d’aria è una conquista. Cammino in questo luogo che ricorda il purgatorio, dove le anime sono sospese tra il reparto rianimazione e la sala dimissioni. Raggiungo lo studio del Professor Massimo Puoti, primario del reparto Malattie Infettive. Sono qui perché voglio sapere come sta vivendo il personale sanitario, che nell’ultimo periodo si trova a gestire non solo la fatica di due anni di sovraccarico operativo ed emotivo, ma anche alcuni pazienti che hanno perso la fiducia nella scienza e nel loro lavoro.
Professor Puoti, stiamo assistendo a una sorta di ribellione verso la scienza. È un fenomeno nuovo?
«È un fenomeno che è sempre esistito, ma che adesso si concentra nel tempo e nel luogo, perché questa infezione colpisce, nelle forme più gravi, proprio chi non si vaccina. Mentre le altre infezioni o malattie vengono a tutti, indipendentemente dalle proprie convinzioni, in questo momento l’80% dei ricoverati in terapia intensiva sono persone che non si sono sottoposte alla vaccinazione. La maggior parte non si vaccina per paura o per assenza di informazioni adeguate, senza aver elaborato razionalmente una sfiducia nella medicina e nella scienza. Solo il 20% ha realmente un rifiuto e ha sposato teorie negazioniste o complottiste».
Dentro il reparto Covid
Di fronte a questi pazienti, cosa prova?
«È una cosa che ho già visto tante volte in passato. A me dispiace solo che queste persone possano perdere la vita, ma le loro opinioni non cambiano il mio rapporto con loro, né dal punto di vista medico, né umano. Ho avuto a che fare con l’infezione da HIV e nel 1996, quando sono arrivate le terapie in grado di evitare la morte, e ora anche la trasmissione del virus, molti pazienti non credevano in queste cure. Tanti non si sono fatti trattare e sono morti. Questo fenomeno fa parte del mio bagaglio da infettivologo. Accade anche per altre patologie. Steve Jobs aveva un tumore benigno che avrebbe potuto operare subito, ma ha aspettato un anno, rivolgendosi a santoni e curandosi da solo. Poi è stato troppo tardi».
Come fate, in questi casi, a ristabilire l’alleanza terapeutica col paziente?
«Strumento essenziale è avere una comunicazione aperta. Non dobbiamo avere pregiudizi o giudicare. Occorre ascoltare e prestare attenzione a quello che ogni paziente ti può dare. Dobbiamo rispettare le loro scelte, se prese dopo essere stati informati. C’è anche il diritto a morire, sa? Anche se, ad esser sincero, sono pochissimi quelli che quando non respirano hanno veramente il coraggio di rifiutare il nostro aiuto. Qualcuno c’è stato, però!».
Come gestite questi casi estremi?
«Non bisogna portare le proprie tesi a tutti i costi. Non è una lotta tra noi e la morte. Il medico deve curare il malato, non la malattia. Dobbiamo far tutto per dire alla morte “non oggi”, ma se il paziente non vuole le tue cure, devi preservare il suo diritto di scelta».
Supporto psicologico ai pazienti
Quali sono i casi che le sono rimasti più impressi?
«Ricordo un gruppo di donne, che facevano parte di una comunità in Valcamonica, che rifiutarono le cure per l’HIV. Si curavano bevendo urina. Sono morte tutte. Sa quanti rifiutano il vaccino, perché fatto con le cellule dei feti, ma poi vogliono essere curati con i monoclonali, fatti con le milze dei topi ibridati geneticamente? In questi casi occorre ascoltare e cercare di far loro capire».
Questo ospedale è stato uno dei primi, in Italia, ad attivare un servizio di supporto psicologico dedicato non solo ai pazienti, ma anche al personale sanitario.
«Gli psicologi lavorano sui pazienti, cercando di gestire il loro atteggiamento di sfiducia e di scontro. Su di noi lavorano cercando di sdrammatizzare (anche con rappresentazioni sceniche) e rafforzando il rapporto tra colleghi. Fare gruppo aiuta l’operatore a gestire la pressione. Perché siamo stanchi, lo sa?».
Immagino.
«Io magari meno, perché il primario non è sempre a stretto contatto con i pazienti. Quelli stanchi sono i medici e gli infermieri, che stanno in prima linea. Si lavora più ore. Si lavora con la paura. Poi ci sono le telefonate ai cari. C’è la gestione del lutto con i parenti. C’è un lavoro che è cambiato. Noi prima facevamo anche altro. Adesso solo Covid».
Quando hanno avuto paura i medici
Ha avuto paura, in questi due anni?
«Ho avuto paura per i miei medici. Sentivo di altri reparti di malattie infettive in Italia, dove gli operatori finivano in terapia intensiva. E poi ricordo i primissimi ricoverati. Entravano in reparto ridendo, senza rendersi conto di quello che stava succedendo. E poi, morivano. Uno dietro l’altro».
C’è un’immagine che, invece, vorrà ricordare?
«Un mio collega, a cui tengo tanto, che era in una situazione critica, a cui abbiamo somministrato una terapia che allora era molto sperimentale. Si è salvato».
Sto per salutare il Professore, ma mi interrompe: «Ho perso mio cugino a novembre 2020. Aveva la mia età. Si trovava a Cagliari. Se fosse stato qua, forse avrei potuto fare qualcosa».
La sua voce è rotta. Non ho più di fronte il primario Professor Puoti, ma Massimo, l’uomo. Lo ringrazio per questa condivisione e proseguo il mio viaggio, avvicinandomi alla trincea.
Il paziente che rifiuta l’ossigeno
Premo la mascherina sul viso, un riflesso incondizionato.
Incontro Carlotta Rogati, Giovanna Travi e Beniamino Vigo, medici del reparto malattie infettive.
Mi raccontano di essere stanchi e che parte della stanchezza deriva dalla difficoltà di gestire persone che reputano i trattamenti salvavita inutili. Dalle telefonate con i familiari che la pensano come loro e che a volte arrivano anche agli insulti. «Se durante la prima ondata ci trattavano come eroi, ora spesso veniamo percepiti come nemici, ma siamo sempre le stesse persone».
Persone, ecco cosa vedo di fronte a me. Persone rattristate, mentre ricordano il paziente che ha rifiutato l’ossigeno, fino a che non è stato troppo tardi, nonostante i suoi parenti li implorassero di fare qualcosa. Persone sollevate quando raccontano dell’altro paziente, che è arrivato a sputare in faccia all’anestesista, ma che poi, grazie al loro intervento, si è salvato. Parlano di diffidenza, aggressività, opposizione. Di pazienti che chiedono terapie non più usate da anni, o terapie indicate per altre patologie. Di ingiunzioni da parte di avvocati, perché non vengono seguite le richieste «bizzarre» di questi pazienti. Chiedo loro come il supporto psicologico li abbia aiutati e mi rispondono che è stato fondamentale «imparare a metabolizzare l’aggressività».
Il Dottor Vigo è prossimo alla pensione. Lo chiamano il guru, perché è il più zen. Ha vissuto il periodo dell’HIV e ricorda come sia fondamentale per un medico, imparare a gestire le proprie risorse emotive, «bisogna ricordarsi che c’è una vita fuori».
La Dottoressa Travi e la Dottoressa Rogati, però, sentono ancora addosso la paura dei primi tempi, quella in cui i pazienti morivano tra le loro braccia, senza neanche arrivare alla terapia intensiva. Quando erano terrorizzate all’idea di infettare i propri cari. Non riescono a vedere una fine. «Mi sembra di vivere in uno stato di immobilità. Questa estate molti di noi non avevano neanche voglia di partire. Fare niente è l’unica cosa che ci lascia sereni».
La Pandemic Fatigue
Parlano di sfiducia nel genere umano. Della difficoltà di tornare a una normalità pre-pandemia. Sono un fiume in piena, penso che la loro condizione è quella descritta dall’OMS come Pandemic Fatigue, una sindrome comportamentale in risposta agli stati di crisi prolungati. Mi raccontano di assenza di ossigeno, di scelte di pazienti da salvare, di decine di morti al giorno, della difficoltà di vestirsi ogni mattina per entrare in reparto, ma anche della gratitudine dei pazienti, di Walter che sono riusciti a salvare, dopo 4 mesi di Covid.
Anche a Carlotta Rogati chiedo se ha un’immagine che vuole ricordare. «Ne ho tante, anche il paziente che mi ha portato i cannoli stamattina». Scoppia una risata distensiva. «Vorremmo che passasse il concetto che non è vero che se vai in ospedale muori. Non siamo qui per ammazzare nessuno, ma per salvare».
Mi incammino verso l’uscita, con mente e cuore pieni. Ma nel mio viaggio c’è ancora posto per un incontro inaspettato. Sonia (nome di fantasia) è anestesista. All’inizio non vuole parlarmi, poi le parole escono, senza sosta.
«Durante la prima ondata piangevo ogni volta che uscivo da qui. Per tutto il tragitto fino a casa».
Racconta di giornate e notti infinite, senza bere né mangiare, per il terrore di togliersi le protezioni e respirare quell’aria infetta. Mi parla di labbra secche, disidratate. Di albe trascorse a guardare il cielo e mangiare gallette, per trovare la forza di tornare a casa. Di docce fatte senza riuscire ad abbassare la mascherina. Di notti in cui pregava il Signore che facesse stare male uno alla volta i 27 pazienti in terapia intensiva, che stava assistendo.
Mi parla di dolore e di paura. «Non c’era vita. Venivi qui e vedevi solo morte, a casa non potevi vedere nessuno. Ricordo quando i miei cari hanno chiesto il numero dei miei colleghi, perché… se mi fosse successo qualcosa». L’emozione è troppo forte. «Camminavi per questo ospedale e respiravi morte, terrore. Se avessero visto un millesimo di quello che abbiamo visto noi, si incollerebbero la mascherina in viso e correrebbero a vaccinarsi».
Si può raccontare ma non si può capire
La cosa che più l’ha emozionata? Il grazie dei parenti, quelli che non potevano vedere i loro cari e per i quali lei era diventata famiglia. «A volte ho pregato io per loro, quando neanche il sacerdote poteva avvicinarsi».
Come sta adesso? «Si vive, si va avanti, ma non sarà mai più come prima».
Mi allontano. Cerco l’uscita, la mia vita, l’aria. Ripenso a quello che tutti mi hanno ripetuto: «Si può raccontare, ma nessuno potrà mai capire». Forse anch’io non ho capito nulla, ma decido di portare con me un’immagine, quella dei cannoli regalati questa mattina, che hanno commosso la Dott.sa Rogati. Perché questo ci fa capire che Massimo, Giovanna, Carlotta, Beniamino e Sonia non sono supereroi o semidei, non sono neanche solo medici. Sono persone. Ricordiamocelo tutti, quando avremo a che fare con loro.