Gabriele Nissim ci parla di genocidio e della responsabilità del perdonare l’altro. La storia ci deve insegnare a non dimenticare.
Gabriele Nissim è un uomo Giusto. Un uomo che ha fatto della sua vita e della sua professione di giornalista, storico e scrittore, un percorso di ricerca di verità e giustizia. Un uomo che si impegna per il dovere della memoria, per i diritti umani, per la divulgazione di una Storia che sia riconosciuta come tale e non come tanti accadimenti scollegati. Una Storia che possa aiutare a migliorarci davvero, come persone, come società, come collettività.
Gabriele Nissim è il fondatore e presidente della Fondazione GARIWO onlus – Foresta dei Giusti, che raccoglie insieme persone di idee, convinzioni politiche e religiose diverse, col fine di far conoscere e onorare i Giusti di tutto il mondo, donne e uomini che in ogni tempo hanno fatto del bene salvando vite e si sono battuti a favore dei diritti umani durante i genocidi.
Il genoicidio per Gabriele Nissim
Dottor Nissim, per voi la memoria del Bene è un potente strumento educativo e di prevenzione ai crimini contro l’Umanità. Lei pensa che tutto questo possa essere un tassello per arrivare a un perdono universale?
«La Storia non è uno tsunami, il male è generato dagli uomini, da coloro che causano crimini contro altri uomini. Quando pensiamo al genocidio pensiamo al male estremo, ma non dobbiamo dimenticare che esso è costituito da tanti pezzi che si uniscono e fomentano: dall’odio online, alla stigmatizzazione, al bullismo. Quando riflettiamo sul male pensiamo ad un treno. Lo possiamo prendere verso la direzione sbagliata, o verso quella giusta. Con i Giardini dei Giusti vogliamo trasmettere una grande idea di speranza. Abbiamo visto persone che con un’azione sono state capaci di agire per il perdono. Nel mio libro L’uomo che fermò Hitler racconto la storia di Dimitãr Pesêv, l’ex vicepresidente del Parlamento bulgaro che aveva votato le leggi razziali e definito Hitler come il più grande leader del nostro tempo. Due suoi vecchi compagni di scuola riuscirono a fargli cambiare prospettiva. Pesêv si pentì e prese le distanze da tutto quello che aveva sostenuto prima, ribaltando così completamente la storia».
Quanto è importante il ruolo dei testimoni e quello della storiografia?
«Per quanto riguarda i crimini contro l’Umanità, la testimonianza ha avuto una funzione fondamentale, a partire dal tribunale per la verità e la riconciliazione di Mandela. Questo esempio è stato ripreso anche per il genoicidio in Ruanda, dove c’è stato bisogno di interrompere il meccanismo del male e anche qui il tribunale è stato strumento predominante. Nelle situazioni estreme è molto importante che si arrivi all’assunzione di responsabilità. Una grande filosofa, Etty Hillesum, nei suoi diari poco prima di essere deportata ad Auschwitz, scrisse: “La sconfitta del Nazismo avverrà nella misura in cui noi essere umani dopo la guerra non spargeremo più atti di odio”. Credo molto nella giustizia riparativa, dove si cerca di ricucire le ferite dopo dei crimini che vengono commessi, penso sia uno strumento importante nella prevenzione dell’odio».
Nissim e la responsabilità del perdono
Solo perdonando si possono guarire le ferite dell’anima, ma si può perdonare senza assolvere?
«Ritengo che un essere umano oggetto di un crimine, come uno stupro, per esempio, si trovi di fronte a un bivio: farsi condizionare da questo crimine, o trovare la risposta migliore, quella di non odiare. Sarà poi la Giustizia a fare il suo corso. Certo non si può chiedere alla persona che ha subito il torto di perdonare l’altro, ma quello che si può intraprendere è non farsi prevaricare dalla catena dell’odio.
A tale proposito Liliana Segre è molto determinata, quando parla di indifferenza, lei dice che non perdona quelli hanno commesso il male, ma non farà come loro, non odierà. Nel mio libro Il bene possibile racconto di un giornalista, Antoine Leiris, che perse la moglie nell’attentato del Bataclan e scrisse sui social: “Voi terroristi che avete ucciso mia moglie non prenderete la mia anima. Non vi farò il regalo di odiarvi. Voi l’avete cercato, tuttavia rispondere all’odio con la rabbia sarebbe come cedere alla stessa ignoranza che ha fatto di voi quello che siete”. La filosofia ci insegna molto, Socrate dice che è meglio subire un torto che farlo. Richiama il fatto che una persona vive meglio quando non attinge alla violenza, si rompe la catena del male se non ci facciamo condizionare dal male».
Come ci si oppone alla banalità del male senza perdonare?
«Secondo me la banalità del male è quella della zona grigia: di chi non pensa, di chi gira la testa dall’altra parte. I grandi architetti del male invece lo concepiscono veramente il male: sono convinti a fin di bene di fare il male, eliminare altri esseri umani per rendere il mondo un posto migliore.
Il Bene invece, è generato da una persona che si assume la responsabilità e non si fa condizionare dal male. Questi percorsi di riconciliazione hanno bisogno di due soggetti che interagiscono, nella misura in cui chi ha commesso il male si fa carico di una colpa, di una responsabilità e crea una conciliazione.
La Germania dopo la Seconda Guerra Mondiale si è assunta la responsabilità della colpa e questo ha permesso di ristabilire un dialogo con il mondo ebraico. La riconciliazione avviene quando una persona che ha subito il torto si assume la responsabilità di non odiare e dall’altra parte la persona che ha commesso la colpa, la riconosce. Ecco il miracolo del perdono. Anche di fronte ai mali estremi questo processo può creare un nuovo inizio».
Di fronte alla scomparsa dei testimoni diretti di un particolare periodo storico, ci potrebbe essere il pericolo di una caduta nell’oblio e si rende necessario il ricorso alla Storia. Lei sente questo rischio?
«I genocidi sono continuati anche con i racconti dei testimoni. Purtroppo il male ha continuato a dilagare anche dopo la Shoah, pensiamo al genocidio dei Tutsi, alla Cambogia, alla guerra in Darfur. Penso che per prevenire il male ci voglia una continua educazione alla responsabilità. Guardando al passato tutti noi prendiamo posizioni, ma questo non è sufficiente. La responsabilità si colloca nel tempo presente. Una persona può empatizzare con le vittime di ieri e non accorgersi del male che c’è oggi. Questa la mia domanda: la memoria funziona se si condanna il passato o se si diventa responsabili del tempo in cui si vive? Ecco, dobbiamo fare in modo che ci sia più conoscenza, la gente non ha empatia, ad esempio, verso i migranti. Domani non ci saranno più testimoni, ma noi dobbiamo ascoltare i testimoni che subiscono il male oggi. Forse non gli diamo ascolto perché questo comporta metterci tutti in discussione, nell’oggi. E non è facile».