Per capire a fondo questo fenomeno, dobbiamo prima ammettere che i media sono diventati onnipresenti: i canali di news trasmettono notizie 24 ore su 24, e quando spegniamo la tv ci basta aprire Facebook o Twitter per avere notizie in tempo reale.
Cosa stavi facendo l’11 settembre?
Molti di noi erano di fronte a un televisore, testimoni di uno degli eventi più drammatici della storia contemporanea. Grazie ai media, l’umanità ha avuto un biglietto in prima fila in una tragedia dalla portata inaudita, forse troppo grande per noi. Succedeva dall’altra parte del mondo, eppure tutti eravamo lì in un modo o nell’altro.
Il cambiamento più grande, però, non stava nello skyline della Grande Mela: durante l’11 settembre, le persone normali erano informate degli eventi in tempo reale. Era la prima volta che succedeva in maniera così massiva. E mentre il falling man precipitava dai grattacieli, i titoli di coda della sua vita trasmessi in mondovisione, la gente soffriva e si indignava.
Mentre le tv ritrasmettevano quelle immagini come un mantra, martellando menti e coscienze, la rabbia del popolo si è presto trasformata in richiesta di vendicare quelle morti così cruente. Ed è così che il popolo è stato accontentato. Ventun anni dopo, la war on terror non ha portato i suoi frutti, e in molti casi ha peggiorato la situazione. È addirittura emerso che, tra governi ed esperti del settore, erano in tanti ad opporsi agli interventi militari in Medio Oriente, considerati fallimentari e inutili ancora prima di iniziare. Perché andare in guerra, allora?
I mass media diventano onnipresenti
Secondo molti, la guerra è servita ad accontentare il popolo.
Quello stesso popolo che aveva assistito in diretta agli attentati, che aveva guardato ore e ore di programmi televisivi, letto centinaia di articoli e ascoltato chissà quanti programmi a riguardo alla radio, ora chiedeva giustizia. I mass media, sempre più presenti nel nostro quotidiano, erano in qualche modo diventati un casus belli. E non era la prima volta.
Forse uno degli esempi più eclatanti e più studiati negli ambienti accademici è quello dell’intervento americano in Somalia, all’inizio degli anni 90: mentre immagini di bambini malnutriti tra i palazzi crivellati di colpi rimbalzavano tra tv e giornali statunitensi, ecco che gli americani chiedevano al governo di entrare nel conflitto, di non girarsi dall’altra parte. Nemmeno 3 anni dopo, gli stessi americani invocavano la fine delle operazioni di peacekeeping, mentre Time Magazine pubblicava in prima pagina la foto del corpo di un soldato americano, profanato e trascinato per le strade di Mogadiscio come un giocattolo. È ormai celebre e simbolica la frase «i media ci hanno trascinato in Somalia, e i media ci hanno portato via dalla Somalia».
Per capire a fondo questo fenomeno, dobbiamo prima ammettere che i media sono diventati onnipresenti: i canali di news trasmettono notizie 24 ore su 24, e quando spegniamo la tv ci basta aprire Facebook o Twitter per avere notizie in tempo reale. Non possiamo più girarci dall’altra parte per fuggire da ciò che accade nel mondo, perché dall’altra parte ci sarà un televisore che ce lo mostrerà in diretta. Questo continuo bombardamento mediatico fa sì che l’impatto dei mass media sia così forte da essere complicato da analizzare fino in fondo.

Accedere alle notizie mentre accadono
Una prospettiva interessante è quella del cosiddetto «Effetto CNN»: i media sono passati dall’essere un mezzo di informazione all’essere protagonisti indiscussi della politica internazionale. I mass media moderni mobilitano l’opinione pubblica come mai prima d’ora e permettono di accedere a qualsiasi notizia proprio mentre accade. Questa prospettiva crea due effetti che hanno un forte impatto politico.
In primo luogo, per citare Endrigo «lontano dagli occhi, lontano dal cuore»: la continua attenzione mediatica fa sì che la sensibilità nei confronti di ciò che accade sia maggiore. Ad esempio, siamo molto più sensibili nei confronti del conflitto tra Russia e Ucraina perché giornali, telegiornali e canali web vi pongono una maggiore attenzione; lo stesso non si può dire della guerra civile in Yemen o in Sud Sudan, a malapena trattate dai media tradizionali.
Una maggiore sensibilità si traduce in una maggiore mobilitazione dell’opinione pubblica, che a sua volta aumenta la pressione sulla politica, spingendo i governi a prendere decisioni che non avrebbero preso altrimenti.

Giustizia «in diretta» e l’effetto CNN
L’altro lato della medaglia analizza la velocità di propagazione delle notizie. Grazie a (o per colpa di) tv e internet, siamo tutti informati degli eventi in tempo reale: dalla Primavera Araba twittata dalle piazze, alle esecuzioni dell’Isis trasmesse online, i governi e le persone normali vengono a conoscenza degli eventi nello stesso momento.
Questo aspetto mette ulteriori pressioni sulla classe politica: mentre prima c’era tempo di analizzare e di decidere come reagire nella maniera più adeguata, ora le scelte politiche diventano una corsa contro il tempo per cercare di placare l’opinione pubblica. Il rischio che le scelte prese in fretta e furia siano inadeguate o sbagliate aumenta esponenzialmente, portando addirittura a conflitti e interventi militari, come nel caso dell’11 settembre: il mondo aveva visto le torri crollare in diretta e voleva avere giustizia «in diretta».
L’effetto CNN ci impone di fare attenzione al modo in cui ci poniamo di fronte ai mass media: siamo attori inconsapevoli della storia, perché queste piattaforme ci danno un potere così grande da diventare pericoloso. Sta a noi usare questi mezzi di informazione in maniera responsabile, consumando le notizie senza cedere a fanatismi o a risposte «di pancia».