Federico Faggin: perché la teoria quantistica spiega (anche) come la coscienza ci rende spirituali

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Intervista a Federico Faggin, il principale inventore italiano vivente, padre dei microprocessori che hanno generato l’età digitale e che, attraverso la la teoria quantistica, ci spiega come la coscienza ci rende spirituali e irriducibili.

di Fiamma C. Invernizzi, B.Liver

Fuori piove. Piove in un lento incedere di acqua che conosce la sua strada da milioni di anni: da su a giù quando è pesante, da giù a su quando torna leggera. Il ticchettio si mescola a rumori di case che si chiudono per dormire, lontane dal fastidio umido di impermeabili invernali.

In salotto siamo rimasti in tre: Antoine Roquentin*, ricurvo nella poltrona, Federico Faggin, comodamente seduto sul divano, e io che, le gambe incrociate, li osservo, naso all’insù, direttamente dal tappeto.

Antoine ha la sua solita espressione di nausea e ha smesso di parlare da poco, dopo aver affermato quel suo «Sono io, credo, che son cambiato: è la soluzione più semplice. Ed anche la più spiacevole, ma infine debbo riconoscere che sono soggetto a queste trasformazioni
improvvise. Gli è che io penso assai di rado; perciò si accumula in me una piccola folla di metamorfosi senza ch’io ci badi, poi un bel giorno avviene una vera rivoluzione»
.

A seguito di quell’affermazione lo abbiamo guardato entrambi, restando in silenzio.

Poi mi sono rivolta a Federico Faggin e gli ho domandato come fosse avvenuta per lui, la rivoluzione.

Dai microprocessori alla coscienza: il percorso di Federico Faggin

Lui che, nato nel 1941 a Vicenza si era poi laureato in fisica nel 1965, con 110 e lode a Padova. Lui che, dal 1968 si era trasferito negli States diventando capo progetto e designer dell’Intel 4004, il primo microprocessore al mondo. Lui che, raggiunti i quarant’anni e una carriera di successo, aveva avuto il coraggio di scoprirsi infelice, di ascoltare la sofferenza e di intraprendere un nuovo percorso.

«È importante dire che non ho completamente abbandonato la strada su cui avevo camminato fino a quel momento», afferma con serenità, «ho solo aggiunto qualcosa al precedente percorso. Non mi sono ritirato in cima a una montagna, anzi: di fatto per vent’anni ho continuato ad essere CEO della mia azienda – la Synaptics, in cui sono stati sviluppati i primi Touchpad e Touchscreen – e nello stesso tempo ho esplorato la natura della coscienza. Nello specifico della mia coscienza, visto che noi possiamo solo conoscere noi stessi. Ed è stato da questa riflessione – durata un ventennio – che ho tratto una fondamentale conclusione: la coscienza non può emergere dal cervello, come la scienza ci aveva raccontato».

Lo guardo stupita, incuriosita dalle parole di un uomo di scienza capace di mettersi in discussione in direzione di una visione più ampia dell’esistenza umana.

Federico Faggin interpretato da Chiara Bosna

La coscienza cambia la descrizione di come funziona la realtà

«Se consideriamo fondamentale la coscienza», prosegue, «cambia tutta la descrizione di come funziona la realtà. Ci si avvicina di più alla rappresentazione degli insegnamenti di chi ha esplorato l’aspetto spirituale – cioè l’aspetto di unione con il Tutto – e nello stesso tempo si mantiene il fatto che ciò che sappiamo della scienza è ben verificato e quindi, in qualche modo anch’esso deve far parte dell’insieme. Invece di ripudiarla, vuol dire unire la scienza stessa alla spiritualità. E ciò cambia completamente il punto di partenza, l’idea di chi siamo: se noi pensiamo di essere macchine – che è quello che ci dicono gli scienziati – finiremo in un vicolo cieco in cui ci convinceremo che in futuro le stesse macchine ci supereranno.

Ma è qui il punto nevralgico: ci dimentichiamo che queste ultime – tutte – le abbiamo create noi, e che per questo saranno sempre un passo
indietro. Non abbiamo ancora potuto dare loro la creatività, infatti, il libero arbitrio o la capacità di immaginare, di uscire dai binari o dagli schemi, è ciò che ci distingue come esseri umani».

Nel silenzio ripenso all’antico aforisma greco scritto a caratteri cubitali sul frontone del tempio di Apollo a Delphi: conosci te stesso (ΓΝΩΘΙ ΣΕΑΥΤΟΝ). Un percorso lungo, tortuoso, intenso e profondamente vero.

La consapevolezza di essere artefici della nostra esperienza

«Dobbiamo essere onesti verso noi stessi. Soltanto questa integrità ci rende responsabili di ciò che siamo – di chi siamo – dandoci la vera possibilità di non essere automi. Le macchine non sono responsabili, sono macchine. Diversamente, invece di dare la colpa a qualcun altro, dobbiamo avere la consapevolezza di essere artefici della nostra stessa esperienza: solo così acquisiamo la capacità di fare quel salto che ci condurrà naturalmente a scoprire chi siamo. Questo perché abbiamo accettato il fatto che non sappiamo chi siamo e che abbiamo la responsabilità di saperlo».

Mi annodo, per un attimo, al limite tra la conoscenza filosofica, quella letteraria e scientifica, tra le parole che ben conosco dai Quaderni del Carcere di Antonio Gramsci: «Crisi è quel momento in cui il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere», e di Carl Gustav Jung «La tua visione diventa chiara solo quando guardi dentro il tuo cuore: chi guarda fuori sogna, chi guarda dentro, si sveglia».

Mi sento in ottima compagnia, in questo salotto che si sta pian piano affollando di idee, visioni, nomi, compagni di viaggio e maestri.

«Ci sono voluti quasi 10 anni dal momento in cui ho preso coscienza che non ero stato responsabile di ciò che stava avvenendo nella mia vita», afferma Federico Faggin, «per giungere a capire che sono un essere spirituale. È stata un’esperienza spontanea. La coscienza non è una cosa; è una proprietà di un ente cosciente, che ha libero arbitrio e che anche ha un’identità. Cioè sa che l’esperienza che sta vivendo è la sua esperienza. Perché un sistema potrebbe anche essere cosciente ma non auto-cosciente e quindi non può gestire la sua esperienza, perché nemmeno sa che è la sua, tale esperienza! Il fatto di sapere che qualcosa è MIO, quello mi dà identità. È un feedback dell’ente su
sé stesso, in cui riconosce che può conoscere se stesso».

Annuisco, ripercorrendo un paio di volte le sue parole nella mia mente. Lui si allarga in un sorriso.

«Immagina un film di cui si può essere semplici spettatori, semplici osservatori. Ecco. La differenza sta nel diventare attori coscienti che lo stesso film che si sta osservando è la propria esperienza. Diventare responsabili. Come nella fisica quantistica: non esistono osservatori, ma solo attori».

La morte, dove la mettiamo?

Lo interrompo perché sento una domanda nascere spontanea, tra spiritualità e scienza, coscienza e materia: «La morte, dove la mettiamo?».

Sospira e riflette: «La morte, la voglio chiamare rinascita. Come diceva Pablo Neruda, “Nascere non basta. È per rinascere che siamo nati. Ogni giorno”. Con la morte perdiamo il corpo, che torna ad essere materia, mentre la coscienza rimane in una realtà più vasta. Immagina che, dal deserto del Nevada, guidi un drone dall’altra parte del mondo, in Afghanistan. Ecco, il drone fornisce informazioni utili sul suo stato, la sua localizzazione, su ciò che vede e ciò che lo circonda. Se il drone viene abbattuto lui cade ma io non vado da nessuna parte, resto ciò che sono. È come la fine di una seduta in un simulatore, no? Solo quando quello si spegne posso davvero accorgermi che ero concentrato, catturato da quelle poche informazioni specifiche, senza sapere che tutt’intorno c’era una realtà molto più vasta. Quella nuova realtà è resa visibile dalla coscienza, perché è proprio dalla coscienza che comincia la realtà».

Resto immobile, affascinata. Incantata da questa capacità di avvicinare discipline, teorie e mondi così lontani.

Antoine Roquentin si anima sulla poltrona, nell’angolo opposto di questo salotto ormai gremito di antichi e rinnovati pensieri. Lo vedo riportare alla mente una musica lontana, il suo disco preferito, con la «negra che canta», che, cantando, si salva. Sento che sta per dirlo, in quel suo finale che ha il sapore speranzoso di uno spiraglio di luce.

«Sento qualcosa che mi sfiora timidamente e non oso nemmeno muovermi per paura che scompaia. Qualcosa che non conoscevo più: una specie di gioia. La negra canta. Allora è possibile giustificare la propria esistenza? Un pochino? Mi sento straordinariamente intimidito. […] Ma sono come uno completamente gelato dopo un viaggio nella neve, che entri di colpo in una camera tiepida. Penso che resterebbe
immobile vicino alla porta, ancora freddo, e che lenti brividi percorrerebbero il suo corpo»
. Anche lui ha cambiato idea, all’ultima pagina, artefice di una rivoluzione.

Guardo fuori. La pioggia si è ormai tramutata in neve, in un silenzio placido di serenità, in un fluttuare senza peso, nel godimento di quella sua dimensione senza tempo. Tutto è ormai silenzioso.

*Protagonista del romanzo La nausea di Jean-Paul Sartre

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