Guido Crepax (Milano, 1933 - 2003), artista e fumettista, viene interpretato in questa intervista impossibile dalla figlia, Caterina Crepax, e da Martina Dimastromatteo, B.Liver
di Caterina Crepax e Martina Dimastromatteo
Svolto verso piazza Leonardo, seguita da una fiumana di studenti, alcuni scherzano, altri si confrontano sull’esame di Urbanistica, ma c’è una ragazza che fra tutti attira la mia attenzione: altissima, caschetto nero geometrico, come disegnato, si muove elegante verso l’ingresso del Politecnico. Ed Ecco Guido, che mi attende su una panchina nel piazzale. Anche lui la segue con lo sguardo. «Dai, Giuli, andiamo!». Mi avvicino e ci sorridiamo.
Chi è veramente la Valentina di Guido Crepax?
Intorno a Valentina c’è sempre stata un’aura misteriosa. Come ha saputo creare questo equilibrio tra detto e non detto?
«Non saprei e non so neanche se questa fosse la mia intenzione. Valentina è un personaggio di fantasia che ha sempre vissuto le sue storie a cavallo tra vita quotidiana e mondo onirico.
La vita che le ho attribuito è talmente reale che la percezione dei lettori è stata che Valentina esistesse veramente. A differenza di lei, io non sono quasi mai uscito da casa mia e quindi mi è venuto spontaneo attingere dalle fonti familiari per creare i miei personaggi e i loro luoghi.
Per questo ho “rubato” il nome alla mia prima nipote, la cui nascita mi aveva molto emozionato. Avevo solo 18 anni. Quando ho inventato la Valentina di carta, mi sembrava che il suo nome fosse adatto a una ragazza moderna».
Due Valentina in una…
«Già, e questo ha dato vita, senza che lo volessi, al primo pasticcio: mia nipote si chiamava Valentina Crepax, molti attribuivano il mio cognome alla Valentina personaggio, nonostante ne avesse uno suo, Rosselli. Così c’erano due Valentina Crepax a Milano, una vera e una finta.
Mia moglie, poi, si era tagliata i capelli a caschetto ed era la sosia in carne e ossa del personaggio, seppur con un carattere ben diverso. Ad aggravare la situazione sono stati i vestiti, gli oggetti, i mobili, le automobili, i luoghi di vacanza della mia famiglia “utilizzati” nelle storie di Valentina. O fatti importanti come l’arrivo del figlio di carta di Valentina, Mattia, che faccio nascere nel 1970 come il mio vero figlio Giacomo».
Valentina incarna lo spirito del suo tempo. Oggi la sceglierebbe ancora?
«Sì e sempre di più. Già quando la disegnavo era una persona, più che una donna. Era uno spirito del “suo” tempo, ma anche di quello che sarebbe venuto.
Non voglio essere presuntuoso, ma istintivamente sono sempre stato un anticipatore. Valentina è una creatura fluida, aperta nel vivere la sua esistenza e la sua sessualità a seconda delle situazioni in cui si trovava. Il suo fisico curvilineo e al tempo stesso androgino, il taglio di capelli così grafico le hanno sempre dato un aspetto indefinito, enigmatico, capace di attrarre uomini e donne alla stessa maniera».
C’è una cura cinematografica nella costruzione del personaggio. Qual è il suo legame con il cinema?
«Tutto il mio lavoro è in relazione con il cinema. Forse sarei stato un regista interessante, chissà. Ma avrei avuto difficoltà a lavorare in squadra: sono un solitario, faccio tutto da me. Così mi sono consolato con il fumetto.
La struttura della tavola è cinematografica: rompe lo schema classico delle strisce americane. Quasi mai i personaggi sono a tutta figura, c’è sempre qualcosa che manca, un piede, un gomito. Tutto è interrotto o continua nella vignetta successiva. Non ci sono quasi mai scenari ampi.
Anche la questione del tempo, nelle mie storie è da film contemporaneo: frequenti salti temporali, flashback, veri e propri prequel».
Chi è per lei Valentina?
«Forse tutto: la mia creatura, il mio alter ego, la mia fortuna e la mia dannazione, la mia libertà espressiva e la mia prigione mentale.
Solo andandomene dalla vita terrena mi sono liberato di lei o, meglio, ho finalmente liberato lei da me. Ha vissuto per oltre trent’anni legata al suo autore, ora può fare quello che vuole, senza prendersi carico dei miei pensieri, spesso pessimisti.
Quando l’ho creata era una ragazza giovane e avventurosa. Rivoluzionaria. Era quello che forse avrei voluto essere. Era libera e bellissima, poi le ho cucito addosso le mie riflessioni e l’ho trascinata con me nelle paure, nell’inconscio, nei ripensamenti.
Piano piano è diventata meno leggera e più riflessiva. Credo di averle rovinato la vita, avrei dovuto essere più generoso e lasciarle il coraggio, l’innata curiosità e il senso di indipendenza che l’avevano resa così affascinante».
“Valentina è la mia creatura, il mio alter ego, la mia fortuna e la mia dannazione, la mia libertà espressiva e la mia prigione mentale.”
Guido Crepax oltre Valentina
Ma Crepax non è «solo» Valentina. La musica ha assorbito molto del suo tempo e della sua creatività. Arbore la definì «il primo copertinista italiano». Com’è iniziato tutto?
«Devo questo inizio a mio fratello Franco. Più grande di me, lavorava nelle case discografiche. E aveva capito che i dischi in America vendevano di più grazie alla copertina.
In Italia si usava mettere semplicemente il titolo del brano o dell’opera o del concerto, il nome dell’autore, l’interprete, la casa discografica. Al massimo una foto.
E allora un giorno mi ha detto: “facciamole anche noi!”. Su quelle copertine, occhieggiando la grafica dei dischi americani, ho creato il mio stile ed è stato veramente bello, anche perché io amavo la musica, soprattutto il jazz».
È vero che nel tempo libero inventava giochi da tavolo?
«Sì, tutti basati sull’uso del dado, ma molto diversi tra loro. Disegnavo accuratamente le pedine, passate poi a china, colorate e ritagliate. Quei giochi sono stati un bel modo di stare con i miei figli».
Vuole sempre fare il fumettista?
«Mi piacerebbe disegnare ancora, ma qui dove sono non ho il mio tavolo. Era di mio nonno, tutto quello che ho disegnato è nato su quel tavolo, a parte piccole parentesi estive.
I miei figli lo portano nelle mostre e ricostruiscono il mio studio come se fosse una scena teatrale. Adesso l’hanno portato a Legnano dove mi hanno dedicato una mostra.
Comunque non farei più il fumettista. Seguirei il consiglio di mia moglie di non essere schiavo delle cose che mi chiedono. Farei disegni liberi, illustrazioni, magari anche ritratti, ma senza la complicazione della trama, della sequenza, delle parole».