di Giuseppe Ceretti e Emanuela Niada
Interviste impossibili. Quando entro in Casa VIDAS vengo accolta da un grande ritratto della sua mitica fondatrice, Giovanna Cavazzoni, che purtroppo non ho conosciuta, perché è mancata circa 7 anni fa e io ho iniziato solo da tre. Mi immagino di sedermi nell’atrio spazioso dell’ingresso e, in una pausa dal mio turno da volontaria, di interrogarla.
Buongiorno, che piacere incontrarla! Sono curiosa di sapere quando è nata VIDAS e quale è stato il movente iniziale.
«È nata nel 1982, sostanzialmente grazie a due episodi che mi hanno profondamente segnata: 1) l’incontro con una signora molto attiva e generosa che abitava a Rossino, una piccola frazione di Calolzio Corte, sul lago d’Iseo, dove andavo in vacanza. Era sola e quando si ammalò gravemente tutta la comunità si strinse intorno a lei, avendone cura in tutti i modi: chi portandole cibo, chi medicine, chi facendole compagnia, consentendole così un fine vita amorevole e dignitoso.
2) a 16/17anni, mia madre mi chiese di andare a trovare la sua amica Tina, una quarantenne corista della Scala, sola e con un tumore terminale. Ho stabilito con lei un rapporto molto intenso, supportandola nelle sue esigenze. Questa esperienza mi ha ispirato, vent’anni dopo, a dedicarmi all’assistenza di persone gravemente malate, perché potessero ricevere cure compassionevoli in prossimità della morte.
A quei tempi era difficile far capire che si possono prendere a cuore le necessità di una persona, alleviando la sua sofferenza, senza necessariamente poterla guarire».
Non penso sia stato facile ricevere sia fondi privati che pubblici per costruire la struttura e poter garantire un’assistenza totalmente gratuita a così tante persone, seguendole con alti criteri qualitativi…
«È stato davvero difficile! Era una sfida continua dover convincere dell’importanza di un simile approccio, che allora non esisteva. Per fortuna ho avuto amici imprenditori generosi. Ultimamente l’Associazione è cresciuta tanto ed è passata a una gestione collegiale, molto efficiente. I primi tempi esisteva solo l’assistenza a domicilio. Nel 2006 è stato costruito il primo edificio per gli adulti e nel 2019 è stata inaugurata C.S.B. (Casa Sollievo Bimbi) con 6 miniappartamenti di degenza.
Purtroppo, non ero in vita quando è stata completata. Ma da quassù dove mi trovo, osservo questa nuova struttura e mi sento davvero felice, perché noto che dà sollievo a genitori stremati dall’accudire i figli con malattie gravissime, che si trovano a gestire la fine di giovani vite private di futuro.
Vedo i bambini sostenuti dall’amore dei loro cari e dalle 7 équipe multidisciplinari con 70 OSS e 140 volontari che fanno di tutto per distrarli, farli divertire e intrattenerli, per rendere i loro ultimi giorni più sereni possibile».
Quante persone riuscite a gestire in totale? E con quanto personale?
«Sono molto aumentate negli ultimi anni le persone assistite a domicilio: circa 250 al giorno e 1800 all’anno; una ventina al giorno e 400 circa all’anno in Hospice, dove ci sono un centinaio di operatori socio sanitari e altrettanti volontari, oltre a medici, infermieri, fisioterapisti, dietisti, assistenti sociali, logopedisti».
Durante il mio turno noto come tutto il personale metta al centro la dignità e il rispetto per il paziente. Sono attentissimi all’igiene personale, all’alimentazione sana, varia e sfiziosa. Gli ambienti sono freschi, puliti e luminosi. Nella biblioteca c’è tanta scelta di libri e un bel pianoforte per intrattenere con la musica chi si ferma nella sala dalle grandi vetrate affacciate sul verde. I pazienti in servizio long day sono intrattenuti da terapisti occupazionali con varie attività: il cruciverbone tutti insieme, le partite a burraco, il laboratorio di cucina in cui si preparano le ricette preferite e addirittura la visita d’arte a Brera, per chi si sente in forma. Me lo raccontava con entusiasmo una signora che si trova in Hospice, che è in buono stato di salute. Si sente molto stimolata e mi confessa che le fa tanto bene allo spirito!
«Sono contenta di quello che mi dici, perché è esattamente ciò che mi sono sforzata di costruire e cercare di trasmettere al nostro personale. Ci vuole cuore, empatia, gentilezza, attenzione, rispetto e un approccio positivo, gioioso per poter interagire al meglio con persone indebolite, spaventate e spesso sole.
Diventiamo noi la loro famiglia e provvediamo a tutte le loro esigenze, senza che nemmeno debbano chiedere.
Da qui inoltre, vedo che si continuano a mettere in pratica i miei sogni con l’acquisto di due Cascine da trasformare in Case-ospedali con residenzialità per pazienti cronici, complessi, fragili, senza una terminalità conclamata, che non possono essere curati a domicilio.
Sono molto orgogliosa, perché il seme del mio insegnamento è germogliato in tante persone che rendono possibile questa realtà. Insieme stiamo pian piano sradicando il tabù della morte che regna ancora nella nostra società».
Durante il periodo del Covid si sono interrotte tante attività e purtroppo i parenti non potevano star vicini ai malati.
«Non solo, ma ciò che era più crudele in quei mesi era proprio che le persone non potessero vedere i parenti per ricevere conforto negli ultimi momenti di vita. Per fortuna è venuta in aiuto la tecnologia – che non ho mai amato – ma devo ammettere che le videochiamate dei degenti ai loro cari sono state di grande consolazione.
Se poi considero le guerre, i naufragi, i terremoti: tutti quei morti senza assistenza né degna sepoltura, sono convinta che bisogna sempre e comunque agire, stare accanto con consapevolezza, al di là di ogni polemica politica. Si deve andare alla radice di ogni cosa e io sono per la battaglia del fare fino all’ultimo istante: “Si va e si fa” tutti insieme, mettendo in pratica la solidarietà: nessuno deve essere lasciato solo».