di Iris Lenzi, B.Liver
Ricordo quando ero piccola. Ero una bambina minuta e mediamente più bassa delle altre. Sono stata anche definita «microbo». Questo appellativo riassumeva tutto. Non sapevo le cause della mia statura e non capivo nemmeno se fossero conosciute o meno. Una questione però, era certa. Quello che mi stava capitando doveva essere correlato a qualcosa di «razionale» come una malattia o un disturbo. Invece niente.
Tra un esame e un altro sono cresciuta e ho raggiunto la cosiddetta altezza «normale» per la mia età. Quando ero piccola non riflettevo molto sulla salute e sulle malattie. Ero invece impaurita da figure apparentemente più concrete. Avevo il timore degli squali, dei serpenti, dei ragni e degli tsunami. Pensavo anche ad allontanarmi dai più piccoli accidenti quotidiani come cadere o bruciarmi con il fuoco.
Poi però, come da un giorno all’altro, la mia concezione del «rischio» si è modificata completamente. Non pensavo più tanto ad aver paura degli squali, dei serpenti o degli tsunami. Iniziavo a non sapere cosa aspettarmi da qualcosa che mi apparteneva di più: il mio corpo.
Tutto è nato quando ho scoperto il significato di tanti concetti nuovi che prima di allora non mi erano mai stati spiegati. Il significato di piastrine, coagulazione ed emorragia erano tra i primi della lista. Avevo da poco dieci anni e per me questo significava entrare in una nuova dimensione. Ho pensato a come potessi iniziare a prendermi cura di me stessa per farmi sentire meglio e per far stare più sereno chi mi era intorno.
Volevo imitare chi mi curava. Questo era il mio obiettivo, prevalentemente a scuola, quando mi sanguinava il naso e volevo agire immediatamente per fermare l’emorragia. In un certo periodo sognavo anche di diventare medico. Ricordo il primo kit del microscopio. Le prime cellule che ho visto. Tra queste c’erano le piastrine, le mie piastrine.
Quei pochi corpi che avevo nel mio sangue e di cui necessitavo. Sì, perché ne avevo, o meglio, ne ho ancora poche. Sono circa 7.000 su un minimo di 250.000. Il numero non si è mai modificato molto durante il corso degli anni. A sette anni dalla mia diagnosi la situazione non è cambiata più di tanto.
Il numero ha rilevanza, però non è l’unico fattore da prendere in considerazione. Spesso quando si pensa a una malattia, in particolare alle patologie croniche, quello su cui si riflette maggiormente sono le cifre non considerate «normali». In realtà la condizione della persona è il punto chiave da prendere in considerazione.
È vero, non bisogna negare comunque che il numero delle mie piastrine è estremamente ridotto e lo si capisce già dal fatto che dovrebbe essere un numero a sei cifre e non a quattro. Questo però non significa per forza che io stia male. Infatti non è così.
Grazie al mio medico, il dottor Jankovic, a cui sono enormemente riconoscente, sto conducendo una vita «normale». Ho continuato per esempio a viaggiare. Negli ultimi anni questo aspetto sta assumendo un valore sempre più rilevante nella mia vita. Nonostante la mia malattia, sto infatti vivendo molte esperienze che mi stanno arricchendo.
Ho raggiunto il punto più basso della terra, il Mar Morto, per poi arrivare a visitare uno dei luoghi dove sono state registrate le temperature più alte del pianeta, la Death Valley negli USA e, infine, ho esaudito il mio desiderio: andare in India.
Ho viaggiato, scoperto luoghi, incontrato nuove persone e nel vivere queste esperienze, la paura di sentirmi male raramente mi sfiorava la mente. Non avevo timore di allontanarmi dal mio Paese, avevo solo il desiderio di scoprire e sognare allo stesso tempo.
In questi anni poche volte mi sono preoccupata seriamente per la mia condizione di salute. In uno di questi pochi casi non mi trovavo dall’altra parte del globo, ero davanti a casa mia. C’eravamo io, mia mamma e il mio monopattino, che ai tempi rappresentava il mio gioco preferito. Stavo camminando sul marciapiede, ma all’improvviso sono inciampata e mi sono procurata un livido di una quindicina di centimetri sul fianco. Una ventina di giorni e poi è andato via. Avevo avuto paura, però, quella volta. Non era a causa di un agente esterno ma del mio stesso corpo. Non sapevo che cosa potesse succedere.
Un’altra volta, sempre a casa mia, mi sono tolta da sola un dente procurandomi così un’emorragia durata quasi sei ore. Questa volta, come in tutte le altre in cui mi sono fatta male, ho imparato a reagire per aiutare il mio organismo. Ho capito così quanto il ghiaccio avesse un ruolo importante per me. Valeva lo stesso anche per le scatole di Ugurol(un antiemorragico)… Insomma, sono riuscita a conoscere i rimedi per curare il mio corpo a partire dalla mia pre adolescenza .
Così, sia durante le medie che ora alle superiori, la prima domanda che faccio ai miei professori è sempre la stessa: potrei andare a prendere un po’ di ghiaccio, per favore? I miei compagni ormai mi conoscono e sanno perfettamente cosa aspettarsi nel momento in cui cado o sbatto da qualche parte.
Ed è proprio a scuola che ho capito come la mia malattia, che poteva sembrare tanto rara, in realtà non lo è affatto. Perché dico questo? Circa un anno fa ho scoperto che una mia compagna del liceo è affetta dalla stessa patologia e, quando me l’ha detto, sono rimasta sbalordita.
Anche in famiglia ho avuto una parente con questa somiglianza con me: mia zia. In passato infatti, l’ha avuta anche lei, ma a differenza mia, nel suo caso si è trattato di un fatto acuto e quindi di breve durata. Da questo racconto è iniziata la storia della mia diagnosi. Era un caso che anche un componente della mia famiglia fosse affetto dalla stessa malattia? È coincidenza o ci sono altre spiegazioni? Questo non l’ho mai capito.
Penso che neanche la scienza possa dare una risposta valida. Dal giorno della diagnosi ho cominciato a sentir parlare di possibili terapie sintomatiche. Ma nessuno ha la sfera di cristallo e la ricetta per la mia guarigione. Io potrò conoscere la risposta e sentire dentro di me il momento in cui starò meglio. Solo io. Nessun altro. Cara Porpora Trombocitopenica Immune, da te ne uscirò, di questo sono certa.