di Edoardo Hensemberger, B.Liver
«Vedi Edo, già cominciamo male... avevo detto vediamoci vicino a un metrò e mi hai fatto fare almeno 400 metri a piedi, io ho una certa età ormai. E poi un milanese di una certa età le indicazioni le dà sulla base di punti di riferimento, Panarello la Farmacia Foglia, non il nome di una via». Inizia così la mia conversazione con Giancarlo Perego. Gli avevo mandato uno screenshot del mio bar preferito, pensavo fosse la cosa più semplice per fissare un luogo di incontro...
Nel testo sono stati utilizzati i seguenti segni per agevolare la lettura della conversazione:
/ sovrapposizione tra le parti
— cambio repentino di pensiero
(*) commenti e chiarificazioni in sede di scrittura
G: Vedi Edo, già cominciamo male… avevo detto vediamoci vicino a un metrò e mi hai fatto fare almeno 400 metri a piedi, io ho una certa età ormai. E poi un milanese di una certa età le indicazioni le dà sulla base di punti di riferimento, Panarello la Farmacia Foglia, non il nome di una via.
E: Sai dal mio punto di vista tu vivi a Monza, quindi io che ne so quali sono i tuoi punti di riferimento a Milano. Per noi è più facile..
G: Anche il linguaggio determina un’incomunicabilità/
E: Uno screen del posto è la cosa più semplice e accurata per fissare un incontro/
G: Io sono cresciuto con una frase milanese di mia madre; non mi ha mai detto fai il bravo, mi ha sempre detto «fa andà il co», fai andare la testa… di fronte alle rapine, al terrorismo nel mio quartiere popolare: «fa andà il co».
E: Fai andare la testa… è bello.
G: Tua madre cosa ti dice?
E: Boh… ah vedi però anche tu sei da cappuccio e brioche, la colazione la facciamo uguale.
(*un cameriere deposita sul nostro tavolo la colazione del direttore)
G: Perché ci sono delle cose che ci omologano, no?
E: Assolutamente sì, abbiamo anche le stesse magliette, quelle di scout a maniche lunghe. Due generazioni molto lontane, eppure ci vestiamo allo stesso modo.
G: Scout è perfetto 10€ e via, la mia pensione sta dentro e tu anche/
E: Io ho 25 anni, tu ne hai quasi 70, ci separano 45 anni e mettiamo le stesse magliette/
G: Ma questo solo a milano/
E: Ma questo solo noi due/
G: Secondo te l’abito dà dei punti di contatto?
E: Sicuramente in quanto uniforme/
G: Secondo me l’abito e i libri sì. E anche quello che vedi/
E: E come lo vedi.
G: Infatti ho preso il bigliettino, (*boomer) e ce l’ho in tasca— se vuoi andiamo insieme— volevo tornare dopo anni anni e anni a rivedere l’ultima cena, di Leonardo… se prenoto vieni?
E: Sssss….quando? Settimana prossima non ci sono.
G: No… lo sai che gli appuntamenti sono a lungo termine… pago io non ti preoccupare, so che non hai una lira, ti mantengo, come coi miei figli/
E: Vengo, se prenoti vengo.
G: Entra, entra sui soldi (*mi sussurra il direttore, come se il microfono sul tavolo a registrarci non potesse sentire)
E: Oggi, sembra che servano un sacco di soldi per fare qualsiasi cosa/
G: A Milano sì/
E: Io ho sempre avuto in testa questa cosa che per vivere felice servono un sacco di soldi… adesso piano piano, e non senza fatica sto cominciando a sradicare questa idea. In questo momento sono a un bivio nel rapporto coi soldi… posso scegliere tra fare i soldi oppure inseguire quello che voglio fare io nella vita, e le due cose non vanno tanto d’accordo almeno per il momento, spero che un giorno—
Fare soldi vuol dire fare quello che dice mio padre, trovare un lavoro normale e tenere il teatro come hobby. Poi c’è la strada che dico io, andare alla ricerca di qualcosa di mio, il teatro o qualsiasi altra forma di qualcosa che mi faccia stare bene; poi capire se è possibile metterci dei soldi dietro.
Faccio il maestro di sci, quindi qualche soldo per mantenermi lo guadagno; bene o male sono fortunato perché ho una famiglia che mi dà un tetto, da mangiare e la possibilità di andare al mare e in montagna.
Nella mia testa non è più «mi servono un sacco di soldi per essere felice» me è «voglio trovare un modo per andare alla ricerca di quello che voglio io».
Certo arriverà un punto in cui dovrò iniziare a guadagnare un po’ più costantemente di come faccio adesso.
Per tanti anni ho pensato, tanto ai soldi e alle cose che comprano, e nonostante io sia nato in contesto fortunatissimo la normalità era pensare alle cose in più da avere; poi paradossalmente ho incontrato persone molto meno fortunate che non avevano nessun tipo di preoccupazione economica, e quindi ho pensato «ma perché io devo star qua a rodermi il fegato perché non ho un modo di fare un sacco di soldi quando c’è gente che senza soldi è molto più serena e fa molto più le cose che vuole fare?»
“Una cosa che apprezzo molto frequentando
Edoardo Hensemberger
l’Accademia a Londra è che nessuno ti chiede
quanti anni hai e se hai tanti soldi”
G: Da sempre, Edo, io vivo con lo stipendio e spendo tutto entro il mese, per ricominciare quello successivo, non ho soldi via, e nella mia vita non ho mai pensato ai soldi.
Ho pensato al posto.
Per dieci anni ho fatto lavoro nero per il Corriere, ero pagato a pezzo; mi ha mantenuto inizialmente la mia famiglia e un po’ guadagnavo come te con lo sci, e poi quando mi sono sposato mi ha aiutato mia moglie, non vuol dire che io non portassi soldi a casa, però non avevo uno stipendio fisso, poi mi ha assunto il Corriere ed è cambiata la mia vita.
Quello che ti consiglio è, se puoi, scegli sempre quello che ti fa crescere e ti piace.
Il lavoro fisso va bene proprio quando devi mangiare, ma se hai un piccolo spiraglio giocati la carta. Io negli anni settanta avevo tre possibilità; fare il calciatore professionista dopo l’esperienza in serie C, ma non volevo spostarmi da Milano e mi avevano chiesto di andare a giocare in B a Cava de’ Tirreni; ho fatto scienze agrarie perché amo e abbraccio gli alberi; e allo stesso tempo a sedici anni sono andato in un’agenzia giornalistica, a mettere a posto i giornali e a risistemare le scrivanie; lì sentivo le radio sintonizzate con polizia e carabinieri, si usciva per vedere uno per terra morto e ho cominciato a scrivere le brevi.
Non sono curioso come persona, ho una curiosità sociale. Perché accadono le cose? e in quel periodo c’erano state le bombe di piazza fontana e altri avvenimenti che mi avevano molto colpito/
E: (*Il telefono del direttore squilla da almeno 30 secondi, vista l’età il dubbio mi viene e glielo dico)
Mi sa che ti chiamano/
(*vista l’età un cazzo, l’ha sentito e ha scelto di ignorarlo)
G: Sì sì, ma tu conti di più— e lì è nata la scelta, come per te il teatro adesso. Dieci anni fa magari avevi una lucina e poi piano piano hai capito che vuoi stare su un palcoscenico, perché lì ti esprimi e ti senti te stesso.
Quando al corriere venivano i ragazzi a fare i colloqui io chiedevo:
«Perché vuoi fare il giornalista?»
«Perché mi piace scrivere»
«Esci, vai a casa, fai lo scrittore e non rompere le balle»
Per me era la ricerca della verità, non di una verità assoluta, che non esiste, ma di una verità sociale. Il mio consiglio quindi è insegui le tue passioni, ponendoti un limite.
E: Tu te lo sei posto?
G: Sì. Ho detto a mia moglie «Guarda tesoro se tra due anni non sono dentro un giornale cambio lavoro, vado a pulire le strade, qualcosa mi invento».
Fa bene a te, porti un limite, non è un limite tuo, è un ordine mentale.
Come comincia il tuo ordine mentale di giovane 25enne? Come pulisci la testa?
E: In questo momento non esiste
G: Non ce l’hai? Sei per il caos organizzato?
E: Sono per— bene o male devo sapere cosa sto facendo. E in questo momento non lo so, ed è una cosa che mi destabilizza, quindi cerco di trovare settimanalmente, quotidianamente, di mezz’ora in mezz’ora, qualcosa di stimolante, se poi mi porta anche da qualche parte tanto meglio, però devo mettere dei tappi.
Devo mantenere un ordine mentale con una lista di cose da fare, il problema è che non so quali siano le cose che devo fare, e spesso costruisco delle liste che non hanno senso.
G: Non è meglio non costruire niente e entrare nel caos organizzato?
E: Sarebbe meglio/
G: Sai che devi mangiare, devi amare, devi dormire, e poi— tu sei un ragazzo o un giovane uomo? Come ti senti?
E: (*altro che giovane uomo) Un ragazzo.
G: Un giovane uomo ha tre parole: analisi, tattica e strategia.
Quando tu hai una cosa da affrontare fai un’analisi, poi devi attaccare una tattica e infine una strategia. È una cosa che mi ha aiutato molto, me l’ha insegnata un mio maestro, don Cesare Sommariva, un prete operaio negli anni 70. Con queste tre parole ha condizionato la mia vita; quando sei in difficoltà, analisi tattica e strategia. Tu hai maestri?
E: Stavo giusto pensando a quello; devo dirti di no. Ho sempre sentito un po’ la mancanza di un mentore.
G: Tuo padre? Non dialoghi con lui su queste cose?
E: Non particolarmente/
G: E in un libro? C’è una pagina o una frase di un libro che ti ha cambiato? Che ti ha fatto riflettere?
E: Un libro molto bello che mi ha fatto riflettere e che ti consiglio è Il bar delle grandi speranze, l’autobiografia di uno scrittore e giornalista, JR Moeringher, che racconta la sua storia di giovane ragazzo che vuole scrivere, con tutti gli alti e bassi del caso.
G: Ma ti è piaciuto il libro o hai rubato i segreti del libro?
E: Rubare i segreti del libro è difficile, nel senso che è un mondo completamente diverso, però il messaggio mi è rimasto/
G: Osare, osare, osare
E : Sì e poi soprattutto se c’è una cosa che vuoi fare/
G: La puoi fare/
E: Anche quando sembra non andare.
G: Ci son diversi libri nella mia giovinezza, il mio scrittore preferito è Vasco Pratolini, però un libro che mi ha dato una strada è Niente e così sia di Oriana Fallaci dove— anche la voglia di fare il giornalista viene da quello— c’è una frase: «esponi la tua verità in modo pacato e tranquillo».
Ero molto timido e mi è servita per sbloccarmi con le ragazze con gli amici col lavoro. Ri-cito, dopo 50 anni, Oriana quando dice «il giornalismo non si studia ma si fa».
Molto vero, lo si fa andando in giro a vedere quello che succede, non stando in redazione. Ecco queste cose sono l’inizio e la fine del lavoro fantastico che ho avuto la fortuna di fare. Il modo di scrivere di Pratolini e della Fallaci— ho cercato di copiare molto, frasi brevi e tecniche che mi facevano digerire così bene le loro pagine. Nulla è diviso, tutto è un insieme, la tua capacità quando sei per i fatti tuoi è di mettere insieme le cose che incontri e che fai, se no vivi una vita spezzettata e inutile.
Per me i soldi non sono stati mai un idolo— vivendo in un quartiere popolare nessuno ce li aveva – e la vera ricchezza erano gli amici e gli incontri; gli amici da ragazzo, e gli incontri una volta entrato nel mondo adulto per cui ogni volta che incontri qualcuno gli «rubi» qualcosa; finché poi uno diventa, senza che lui lo sappia e senza che tu glielo dica, maestro.
Ma tu pensi che la ricchezza siano i soldi o lo pensi sempre meno?
E: Lo penso sempre meno e penso che la ricchezza sia trovare appagamento in quello che si fa, che non vuol dire essere felice, ma vuol dire sentire di avere uno scopo. È tanto tempo nella mia vita che in più momenti mi sono sentito senza scopo/
G: Tu hai più amici adulti o più amici della tua età?
E: Va beh chiaramente ho più amici della mia età, però diciamo che già quando avevo sedici anni ho cominciato ad avere qualche amico adulto; la cosa era interessante, perché potevo avere conversazioni e la mia opinione non contava meno solo per una questione di età, era una cosa che mi faceva sentire importante in un certo senso. Adesso che ne ho quasi 26 è una sensazione che non potrà più esistere— io ho detto che sono un ragazzo ma dovrei essere un giovane uomo, personalmente però non mi sento un giovane uomo/
G: Sai annullare l’età?
E: È una cosa che sto provando tanto a fare.
Una cosa che mi piace molto in Accademia a Londra è che nessuno ti dice quanti anni ha, e non c’è scritto da nessuna parte, neanche sui curriculum.
Guardavo le persone nei corridoi e mi interrogavo sulle loro età.
Ero in gruppo con un ragazzo di 18 anni, e abbiamo legato, poi chiaro, penso che vorrei tornare anch’io ad avere 18 anni perché mi sembra che lui sia molto più avanti di me dal momento che stiamo facendo le stesse cose, ma quando 18 anni li avevo io giudicavo quelli più grandi, e adesso sento il mio stesso giudizio arrivare da dietro.
Oggi che divento più grande, questa cosa di annullare l’età mi piace molto, cercare di non giudicare semplicemente tramite l’età. Se hai quarant’anni e stai facendo un corso che sto facendo io a 25 e qualcun altro a 18 vuol dire che la tua storia di vita ti ha portato lì, così come ha portato me a 25 e lui a 18.
Fin da quando sono piccolo ho sempre avuto in testa che ogni cosa avesse i suoi step, il suo tempo per essere fatta, quindi elementari – medie – liceo – università… dall’università in poi questa mia concezione del tempo prestabilita si è sgretolata; ho capito che è un retaggio quello per cui a 21 anni finisci la triennale a 23 hai finito la magistrale e inizi a lavorare a 27 ti fidanzi a 28 ti sposi a 29 fai un figlio e poi vivi in funzione dei tuoi figli per tutta la vita… E l’ho capito quando ho cominciato a incontrare delle persone che vivevano in un modo diverso da questo, che è il modo in cui ha vissuto il mondo che mi ha circondato fino ad oggi, è il modo in cui tutti i miei amici hanno in testa di vivere. Hanno tutti questo senso delle tappe da rispettare preconfezionato, per cui se ha ventott’anni non stai lavorando da tre e non hai fatto 3 salti di carriera sei un coglione.
Negli ultimi anni invece ho incontrato delle persone che hanno vissuto come volevano loro senza il pre- confezionamento/
G: A Milano sono in molti.
E: Forse sì, ma non intorno a me.
Milano è il posto in cui sono cresciuto e in cui ho vissuto 25 anni, dove ho conosciuto i miei amici e i figli degli amici dei miei genitori; la mia Milano è molto piccola e dopo 25 anni mi ha veramente stufato… è il motivo per cui voglio andare via il più in fretta possibile.
Credo che Milano sia la città perfetta per vivere, ma non se ci sei stato per tutta la vita. Una città che mette insieme abbastanza internazionalità, dei posti dove mangi bene, una qualità di vita altissima con tutti gli ingredienti migliori, è funzionale, è più piccola di una metropoli… e quindi credo che Milano sia la città perfetta… solo non per me, non adesso.
G: Non per te, non adesso. Io penso che Milano invece sia una città dove se vuoi fare qualcosa la puoi fare. Ci sono delle mostre che sono la fine del mondo. L’unica cosa è che è diventata una città troppo per ricchi e questo mi butta fuori, ma ho paura che sia un mio retaggio culturale, di non sopportare chi pensa solo a quello. C’è un altro mondo di un’altra Milano, che è quella della solidarietà, del volontariato del Bullone; una città che tiene insieme molto. Però quando penso a voi ragazzi io non riesco più a non pensare— dico che tu sei uno stronzo perché mi hai portato in San Calimero, a trenta metri da casa tua quando io ti avevo chiesto un’appuntamento a metà tra me e te… devi fare ancora molta strada.
E: Però io sarei venuto a Monza eh… tu hai detto facciamo a Milano, e allora tanto vale fare comodo per almeno uno dei due.
G: Vedi tu apri l’articolo con l’attacco che ti ho fatto quando sono arrivato sul luogo dell’incontro e lo chiudi così, riprendendo lo stesso attacco.
(* mi spiega il direttore pensando a come costruire il pezzo… perdonami se non eseguo direttore)
E: Però non abbiamo finito, perché voglio parlare ancora di/
G: Andiamo avanti, quando scrivi però questo pezzo lo metti in fondo/
Amori?
E: No; debolezze. Quali sono le tue debolezze? Oggi e se sono cambiate nel corso degli anni.
G: Sì sono cambiate molto.
Avevo un rapporto difficile con gli adulti.
Quelli che consideravo nella mia fascia d’età, dai trenta in giù, sono gli adulti che mi hanno accolto, con gli altri facevo molta fatica a dialogare, forse perché ho avuto un’educazione abbastanza rigida, libera ma rigida.
Questa prima debolezza poi è diventata una forza, perché gli altri vedevano educazione, vedevano voglia di crescere, il silenzio, forse un adulto non vuole vicino uno che rompe i coglioni, vuole vicino uno che capisce e ascolta.
La più grossa debolezza è non capire chi fa le cose con interesse e chi no. Lo dico strada facendo, io ho assunto delle persone al Corriere e non ho avuto quella riconoscenza che mi aspettavo. A chi ha cambiato la mia vita io sono sempre stato molto riconoscente; ho visto dei giovani che si sono totalmente dimenticati, e questo, che adesso ho superato, mi ha fato soffrire.
Noi eravamo più leali secondo me.
L’altra cosa che mi ha fatto soffrire è il potere, l’ho assaggiato, l’ho praticato— in un grande giornale chi ha delle responsabilità pratica il potere e io sono arrivato a un punto in cui non sono andato oltre, per scelta, sopratutto pensando agli occhi dei miei figli, avrei potuto fare delle cose molto forti, ma le ho rifiutate…
Perché entri in un mondo di potere in cui non volevo entrare, rifiutandole poi, di conseguenza, le ho subite. Non c’è alternativa, quando arrivi in un punto molto alto, o vai avanti in quel modo oppure non fai parte del sistema. Oggi come oggi io dormo sorrido e uso la parola felicità con una tranquillità pazzesca. Non ho scheletri nell’armadio. Ho fatto del male? Credo di aver fatto del male a delle persone, le cercherò e gli dirò che ho sbagliato— ci penso ogni tanto. Ho fatto anche del bene— spegni un attimo.
(*mi dice il direttore, e qui eseguo, spengo il registratore e sposto il telefono. Cari lettori perdonatemi, non saprete mai cosa ci siamo detti in quella mezz’ora. Ma non temete, il microfono si riaccende).
G: Quanto contano/
E: Le donne? Allora io con le donne ho una striscia di sfighe che non ho capito.
Credo che trovare una persona con cui condividere la vita sia fondamentale però credo anche che se io l’avessi trovata prima di oggi, probabilmente mi sarei seduto e non avrei fatto più niente.
Il fatto che io non la trovi continua a spingermi a fare cose, che non c’entrano niente.
Se io avessi trovato una ragazza che si fosse innamorata di me, io sarei stato bene, e per come sono io avrei potuto fare tutta la vita senza fare niente, solo avendo una ragazza che mi ama. Quindi va bene così, perché intanto cerco di mettere a posto tutto il resto, e poi spero che un giorno sarò abbastanza grande da essere in grado di ricevere questa cosa.
Ti ho fatto la domanda sulle debolezze e credo che le mie siano due.
La prima è che faccio molta fatica a credere in me stesso, che vuol dire che non sono capace a trovare il giusto mezzo nel dire “questa cosa posso farla, la so fare” e poi finisce che compenso facendo l’arrogante, dicendo che sono più bravo, quando non lo penso.
Ogni volta che si tratta di fare una cosa nuova penso di non saperla fare, e di non poterla imparare. E questo si trasforma in «chi sono io per meritare di ricevere l’amore di una ragazza?».
Vedo così tanto tutti i miei difetti— io personalmente posso accettarli, sono miei, però il pensiero che una ragazza possa arrivare ad accettare i miei difetti è una cosa che non concepisco, non capisco come possa essere possibile/
G: Se ti può consolare Edo, io ho 69 anni. E ancora oggi io non credo in me stesso, non so che cosa voglia dire. È una cosa che ci mettono in testa, come se solo credendo in te stesso tu possa toccare il cielo con un dito…non funziona così.
Prova.
Invece che credere in te stesso prova a dire a te stesso e agli altri «Provo, Proviamo».
Il Bullone— potevi pensare che sette anni fa un gruppo di ragazzi che non sapevano niente, con uno che non sapeva niente e non voleva stare coi ragazzi, ma voleva stare all’isola d’Elba in un bosco di lecci, si trova lì a inventare una riunione di redazione?
E poi costruire 12 pagine poi 16, 20 50.
Un giornale ogni mese fatto con dei ragazzi, mettere insieme le persone. Non devi credere in te stesso devi fare le cose per capire osando, sapendo, imparando.
Non hai idea quanti libri ho comprato dopo una riunione di redazione… del Bullone eh, non del Corriere. Ogni volta vado in libreria, cerco un argomento adeguato, che mi è utile per non deragliare quando facciamo il giornale.
Ogni volta percorsa una strada devi osare ragionare studiare e farlo con leggerezza; non leggo tutto il libro, li tengo sui comodini, e mia moglie si arrabbia, ma sfoglio e rubo… Come quella frase, la più importante per me «esponi la tua verità in modo pacato e tranquillo», che ha sconfitto la mia timidezza iniziale e i miei silenzi da ragazzo.
Non pensare a credere in te stesso, molte volte ci sono cose che sono legate al tuo vissuto. Quando sei un adolescente, cosa che tu non sei più, il vissuto e la realtà sono sovrapposti, crescendo trovi la giusta distanza tra le due cose. Mantieni il vissuto, ma vivi nella realtà.
Se vuoi conquistare una donna al ristorante basta che tu le faccia l’esempio di realtà e vissuto.
Questo nell’articolo non lo scrivere.
(*dice il direttore prendendo in mano il mio telefono e parlando direttamente nel microfono… ancora una volta, perdonami direttore)
E: Ho una provocazione per te.
Tu hai detto «8 anni fa chi si sarebbe immaginato di costruire un giornale come il Bullone di oggi»; adesso però non pensi che siano troppi anni che siamo comodi nello stesso sistema? La riunione di redazione è la stessa da quattro anni.
G: La riunione di redazione— se tutti i ragazzi venissero con delle idee loro, nuove, del loro vissuto, e tutti portassero un contributo invece di aspettare lo zio Gianca, sarebbe diverso.
Un lavoro che dovrei fare e che non faccio è chiamare tutti i ragazzi per dire «C’è la riunione tra una settimana, porta tre idee o tre cose che ti sono successe»
Non è facile, anche al Corriere c’è gente che non sa cosa dire/
E: E al Corriere si parla di fatti, di cose che succedono, al Bullone no/
G: Potresti anche legare una cosa alla guerra, al clima, puoi farlo.
Una cosa curiosa, una cosa che diventa un tema, una lunga coda fuori da un ospedale.
Dici che la riunione di redazione è sempre uguale, però da ogni riunione esce un giornale diverso; certo che poi vorrei avere più linfa sotto quell’aspetto.
La discussione che stiamo facendo noi sarebbe da fare in 10/15, così che escano cose semplici che facciano riflettere.
E: Quanto sei in contatto con la realtà? Potrebbe essere il tema della prossima riunione.
Per tornare all’altra grossa debolezza che ho— faccio fatica a vivere nella realtà; io vedo una cosa che mi piacerebbe o che voglio fare e costruisco intorno un castello di illusioni gigantesco che poi automaticamente crolla, la realtà non mi ha mai portato a costruire quella cosa lì, sono io che ho visto delle cose che andavano contro alla realtà, ma che mi piacevano, e ci sono andato a sbattere.
“Quanto siamo in contatto con la realtà?
Edoardo Hensemberger
Io faccio fatica a viverla, mi creo troppe
illusioni e costruisco castelli di sabbia”
G: Tu devi dire: «Provo». Quando non sai, «Provo. Provo a zero, senza castello».
E: Il contatto con la realtà è un bello spunto. Pensa solo a quando sei in ospedale, in terapia intensiva, che contatto hai con la realtà/
G: La tua realtà, l’infermiera, la flebo/
E: Alzarsi dal letto. Mi ricordo quando ero in terapia intensiva, la seconda notte tipo, non riuscivo a dormire, ero nel mio letto, occhi chiusi e il cervello che andava a duemila. Ci sono stati dei momenti che io mi vedevo da fuori, mi vedevo da fuori sdraiato nel letto. In quel momento che cos’è reale? Quella cosa lì chiaramente non era reale, però per me in quel momento sì, io mi sono visto, ho visto me stesso, ma non era reale/
G: Hai dato un’immagine, pensa se dovessi trascrivere questa immagine per darla a un intelligenza artificiale, che immagine otterresti di ritorno? L’immagine che esce quanto rappresenta una realtà?
Una cosa che mi fa molta paura— la morte — quando mi capita di parlare con la mamma di Eleonora, una ragazza che tu non hai conosciuto— è stata tanto con noi, eravamo andati io e Fiamma a trovarla quando era già in morfina. Lei era nel letto, noi parlavamo ma non capiva; poi le ho detto «Mi dai una carezza» e lei ha mosso la mano per darmi una carezza. In quel momento non capiva era sotto morfina/
E: Il contatto con la realtà.
G: Esatto. Dov’è il confine, cosa c’è lì?
Pensi che la realtà, pensi che non sia sdoppiata? Triplicata? La realtà è quella che vedi? Però se tu prendi un incidente stradale e metti quattro cronisti ai quattro angoli descrivono l’incidente in maniera diversa, una realtà e quattro descrizioni com’è possibile?
E: Pensa che siamo in 8 miliardi… ci sono 8 miliardi di realtà diverse. Poi la mia e la tua sono simili, quella di un americano e di un cinese sono molto diverse/
G: Un cinese cosa capisce di tutta questa conversazione? Il modo di vivere è totalmente diverso. Per chiudere è: «Quale scontro generazionale? Che cosa vuol dire? Non sappiamo nemmeno cosa sia la realtà».. Però noi due un accordo l’abbiamo trovato sulle sfaccettature della realtà/
E: Altro che generazioni/
G: Le generazioni possono trovare contatto parlando di cose vere/
E: Stando nella realtà! Ma certo, lo scontro generazionale nasce perché la gente parla per il vissuto, tu a settant’anni parli per il tuo vissuto, se non sei in grado di stare nella realtà, e io che ne ho venti parlo per il mio; però il mio vissuto è molto piccolo e il tuo vissuto è molto grande e lo schiaccia.
Se noi parliamo nella realtà, in questo momento parliamo di quello che c’è, ed è lo stesso per me e per te. Poi possiamo avere un modo diverso di vederlo/
G: Ma quelle sono opinioni/
E: Però vediamo la stessa cosa.
Se si parlasse per realtà e non per vissuto…