Siamo diversi, ma davanti alla malattia abbiamo lo stesso sguardo

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27 giugno 2022: Alice è terrorizzata. È il suo primo giorno in day hospital per i Disturbi del Comportamento Alimentare. Oggi, un anno più tardi, Alice si guarda indietro con nostalgia e tanta voglia di vivere: la stessa che non riusciva a trovare nel pieno della malattia, ma che oggi è la luce recuperata alla fine di un tunnel che sembrava infinito.

di Alice Cortese, B.Liver

27 giugno 2022: Alice è terrorizzata. È il suo primo giorno in day hospital per i Disturbi del Comportamento Alimentare. Oggi, un anno più tardi, Alice si guarda indietro con nostalgia e tanta voglia di vivere: la stessa che non riusciva a trovare nel pieno della malattia, ma che oggi è la luce recuperata alla fine di un tunnel che sembrava infinito.

27 giugno 2022. La data che, ormai più di un anno fa, temevo tanto. Sarebbe stato il mio primo giorno di day hospital presso l’ospedale Niguarda di Milano, nel reparto di dietetica e nutrizione clinica per la lotta ai Disturbi Alimentari, nel mio caso l’Anoressia nervosa. Dico «sarebbe stato», ma fu proprio così. Ero terrorizzata un po’ da tutto: non accettavo i cambiamenti, ma soprattutto non volevo assolutamente l’aiuto dei medici che mi avrebbero riportata alla vita, perché pensavo di potermela cavare benissimo da sola. 

Il mattino del day hospital

Quella mattina, una volta entrata nella stanza dell’ospedale, mi sono sentita persa, senza più un punto di riferimento. Avevo davanti a me volti nuovi, giovani, ma sofferenti. Io e le altre ragazze avevamo tutte storie diverse: alcune tra loro erano simili, sì, ma nessuna era uguale. Avevano tutte occhi spenti ma dolci, gentili e probabilmente anche un po’ impauriti dalla vita. Ognuna aveva alcune caratteristiche in comune con altre, però un percorso totalmente diverso. La malattia può insorgere in età differenti, da ragazze ma anche da adulte, e si presenta con caratteristiche da una parte simili tra loro, ma dall’altra distintive e uniche per ogni persona. 

Una cosa che ho imparato in quest’anno è stata proprio che ognuno ha un percorso di guarigione diverso, con tempi e modi a sé; nessuna è uguale alle altre! Quel primo giorno fu terribile non vedere neanche una faccia amica, ma i volti di alcune ragazze mi colpirono subito grazie al loro sguardo dolce. In particolare una ragazza, con degli occhioni marroni e accoglienti che mi fecero sentire subito benvoluta e due treccine che le cadevano sulle spalle coperte dal maglione a fine giugno. Questa ragazza, che un anno dopo questo episodio, mi ha insegnato come aprire il mio cuore alle persone giuste e come affrontare dei «pezzettini» di vita.

Ma quella che ora è la mia migliore amica non è stata la prima persona di cui mi sono fidata all’interno del reparto: penso invece sia stata la mia dottoressa nutrizionista, che inizialmente mi incuteva un po’ di timore, con i suoi modi di fare diretti e senza preamboli, ma lei era la persona che aveva letteralmente in mano la mia vita, la persona che mi ha dato le prime grandi limitazioni e quella che mi ha messo il sondino nel naso.

Con lei però, mi sentivo al sicuro, in buone mani: avevo e ho sempre avuto la sensazione che avesse perfettamente in mano la mia situazione e che sarebbe riuscita a riportarmi alla vita. Si era creata una buona fiducia anche con la mia neuropsichiatra e le dietiste che mi hanno accompagnata, a volte dolcemente, a volte con modi giustamente più decisi ad ogni passaggio che dovevo fare: ad ogni scalo della sacca del sondino, ad ogni aumento di alimenti o grammature, a tutte le riduzioni di giorni in day hospital che ho fatto e ad ogni passo avanti, piccolo o grande. Fin da piccola ho sempre fatto fatica nei cambiamenti, e ne faccio tutt’ora, ma mi sono sempre fidata di chi mi stava guidando in questo percorso di guarigione, anche se a volte ammetto che mi ci è voluto tempo. 

La paura dei cambiamenti

Un altro grande cambiamento che ho dovuto affrontare è stato quando, dopo una decina di mesi, ho dovuto lasciare l’appartamento dell’Associazione Erika, l’associazione che opera all’interno del reparto di dietetica e nutrizione clinica dell’ospedale Niguarda e che sostiene le persone con un DCA (Disturbo del Comportamento Alimentare) e le loro famiglie.

Tornare alla mia vita a Bergamo è stato difficile e spaventoso: dover riprendere le amicizie abbandonate, dover ricominciare la scuola in presenza, ben diversa e più faticosa di quella in ospedale, e dovermi riabituare alla vita di sempre, è stato tosto, ma ne è valsa la pena.

Così ho scoperto tante «amicizie» che non erano importanti e altre che sarebbero state bene nella mia vita, una vita che si stava pian piano trasformando: si sta trasformando nella vita di un’adolescente normale, con dei sogni normali e con le sue difficoltà. Però, visto che nella vita non può andare sempre tutto bene ed è normalissimo avere dei momenti difficili, ora forse non potrei chiedere di meglio: sto pian piano chiudendo un capitolo della mia esistenza che è stato attraversato da molto dolore e dalla sofferenza, da costanti pensieri sul cibo e sulla forma fisica e da qualcosa che mi diceva di continuo che non avrei mai più visto la luce in fondo al tunnel.

Invece ora quella luce la vedo finalmente, e mi sta facendo brillare gli occhi quando la guardo. Però, quando mi guardo indietro, vedo l’ospedale e delle cose che, purtroppo, mi hanno fatto sentire bene in quei momenti difficili e provo un po’ di nostalgia per la sicurezza che tutto ciò mi dava. Comunque, torno a guardare avanti e vedo le vacanze al mare con genitori e amiche, le serate in discoteca, le camminate in mezzo al verde con i miei cani e altre mille cose ancora.

Oggi

Perché, se prima non avevo motivi per approcciarmi di nuovo alla vita, ora ne ho uno in più ogni giorno. Innanzitutto l’oggettività con cui sto imparando a guardare le cose mi piace tantissimo: prima non ne sarei mai stata capace, invece ora mi rendo conto dei fatti così per come sono.

Oppure la semplice spensieratezza che ho quando sono in buona compagnia è una cosa che prima di ammalarmi davo per scontata, invece ho scoperto non essere affatto così: quando la mente è talmente invasa da pensieri negativi che fanno stare male sé stessi e gli altri, non si riesce a scacciare questi pensieri neanche con gli amici o con la musica più alta di tutto.

Invece, quando questi pensieri diminuiscono, il cervello ha spazio anche per i passatempi piacevoli, le vicende accattivanti e le passioni. Ed è qui che la vita è più bella, più libera. 

se prima non avevo motivi per approcciarmi di nuovo alla vita, ora ne ho uno in più ogni giorno“.

– Alice Cortese

Non ringrazierò mai abbastanza gli specialisti all’interno e all’esterno di Niguarda che me lo hanno fatto capire, perché con questo sono diventata una persona nuova e con la voglia di vivere sul serio, quella vera, e non solo sopravvivere. Adesso sono una persona amata dalla mia famiglia e dai miei amici, una persona nuova che sta cercando di imparare ad amarsi anche lei, essendo sé stessa il più possibile. 

Una cosa che mi accompagna da tempo nei momenti più bui è la poesia: non solo leggerla, ma anche comporla. Mia madre quando legge le mie poesie, mi dice che Giacomo Leopardi al confronto era un fiore, perché le mie non sono molto allegre, anzi, sono piuttosto tristi. Poco tempo fa scrissi una poesia sul mio posto sicuro, l’ospedale, e sull’aiuto che mi ha dato. La poesia fa così:

L’ospedale,
il luogo dove nessuno vuole finire.
Eppure,
tutte le volte che ci finisco,
diventa il mio posto sicuro.
È da più di un anno
che sono al Niguarda
per anoressia:
ricordo che mi sentivo sopraffatta
dalla vita
ci stavo annegando dentro
e mi stava togliendo il fiato
oltre che l’appetito.
Poi mi fu lanciato un salvagente.
Ma all’inizio ero scettica,
non lo volevo prendere.
Poi decisi che volevo un salvavita,
e lo accolsi volentieri.
Da quel momento è iniziato
il mio viaggio verso la spiaggia,
un viaggio pieno di onde alte,
ma questo salvagente
che mi abbracciava dolcemente la vita
era solido,
stabile.
Ora finalmente sono quasi alla spiaggia,
riesco a toccare con le mie gambe
il fondale pieno di sabbia.
In fondo all’oceano,
nella tormenta peggiore,
mi sono sentita capita e accompagnata
nonostante non stessi gridando
per non soffocarmi da sola.
Finalmente ora vedo la riva:
tocco a malapena coi piedi
ma di strada ne ho fatta,
trasportata da questo salvagente.
Ho paura a camminare con le mie gambe,
mi fanno male
e sono stanche.
A volte vorrei ancora
lasciarmi solamente andare,
ma poi mi ricordo
quanto è bella la sensazione
della sabbia calda e asciutta sui miei piedi
e non mi va di tornare indietro
nella tormenta.

“All’ospedale ti senti solo, ma quando guardi gli occhi delle ragazze vicino a te cominci a guarire”

– Alice Cortese

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