di Elisa Tomassoli, B.Liver
Maryam Ismail è docente di antropologia dell'immigrazione e mediatrice culturale. Nata in Somalia è in Italia da circa quarant'anni. Alla B.Liver Elisa racconta così il suo passato, con la luce della verità e della consapevolezza, insegnandoci il valore della vita.
Luoghi di uguaglianza
Maryan, qual è per te un luogo di uguaglianza?
«I luoghi di uguaglianza sono ovunque, e ovunque si può e si deve avere pace, non c’è un posto diverso dall’altro. L’uguaglianza la si può cercare, agire e vivere in tutti i luoghi del mondo».
Nella tua esperienza ci sono stati dei posti dove hai visto e sperimentato la disuguaglianza?
«Nel mio Paese, la Somalia, che ha passato circa quarant’anni di guerra civile. I luoghi di dolore non sono solo dove c’è conflitto tra Stati, non soltanto ove vi è una guerra convenzionale, ma anche dove vi sono conflitti tra popolazioni. Tutto quello che vediamo nell’immigrazione recente, quella degli ultimi quindici anni, sono la conseguenza delle disuguaglianze, e dobbiamo ricordare che le persone scappano sempre da situazioni terribili, soprusi e orrori».
Secondo te, anche dove c’è conflitto si possono costruire luoghi di unione e di fiducia?
«Certamente sì. Anche se sappiamo che è più difficile costruire unione e fiducia nel senso reale della parola, in ogni caso si possono trovare azioni di pace e di dialogo che ci conducono alle risoluzioni del conflitto e alla pacificazione sociale. Cito come esempio quello che successe in Ruanda, con milioni di ruandesi trucidati: anche in quel caso, si sono scontrate due etnie l’una contro l’altra, ma hanno trovato la forza di creare da entrambe le parti, un metodo condiviso di ascolto, dialogo e coraggio per superare la loro grande tragedia nazionale.
Azioni simili accadono un po’ ovunque vi si siano conflitti: per fortuna non tutti gli esseri umani hanno il cuore colmo di violenza, anzi, in silenzio – perché il bene, a differenza del male, non si sente e non si vede – spesso vengono messe in atto azioni concrete che preservano l’unione tra le genti».
Il lavoro della fiducia
Che cosa significa per te fiducia?
«Fiducia è una parola molto impegnativa, perché significa riporre parte di sé nelle mani di altri. Fiducia è lavoro, è donare e donarsi, è un valore ancora più forte della parola “amore”. Nella mia vita e nel mio viaggio nelle difficoltà, ho trovato quasi subito spazi di fiducia: sicuramente all’inizio mi ha aiutato la giovane età.
Quando lasciai il mio Paese avevo circa vent’anni, e questo mi ha permesso di buttarmi e di avere fiducia, e anche di ricevere fiducia; mi ha permesso di creare situazioni di accoglienza dentro di me e dentro gli altri. Certamente nel mio nuovo luogo di adozione, cioè l’Italia, l’integrazione è stata più semplice poiché ne parlavo già la lingua (la Somalia è un’ex colonia dell’Italia), conoscevo la cultura, la letteratura, il cinema e i racconti. Il mio percorso alla ricerca della fiducia non è stato semplice, però mi sono addentrata con molto coraggio e molta freschezza, tipiche della gioventù».
Oggi, dov’è necessario costruire spazi di unione e di collaborazione?
«È necessario costruire spazi di pace e fratellanza ovunque, specialmente – ma non solo – nei luoghi di conflitto. In una società e in una comunità mondiale così velocemente modificata e modificabile, una società fluida che affronta di corsa le complessità del nostro tempo, avere saldi sentimenti e valori come pace, rispetto e dignità è difficile, ma doveroso.
Lo sforzo comune di tutti dovrebbe muoversi verso la creazione di luoghi di unione: non dobbiamo mai dimenticare che a fare la guerra ci si mette poco, e a ricostruire dalle macerie ci si mette molto».
La strada del dialogo
E come è possibile trovare spazi del genere nel conflitto?
«La lotta non permette mai di superare il conflitto, il dialogo è la strada. I luoghi di pace nei conflitti sono da sempre presenti, non è un caso che siano uno strumento positivo delle diplomazie o delle mediazioni. Queste modalità d’intervento non bellicoso aiutano a stabilizzare il dialogo anche nei momenti più duri. Se poi ognuno di noi inizia, nel suo piccolo anche soltanto dividendo il pane con il proprio nemico, la smette di infierire verso l’altro, attinge all’energia delle donne che nei conflitti riescono a preservare la comunità, tutelare i propri e gli altri figli e a proteggere gli anziani, ecco che ci renderemmo conto delle nostre potenzialità umane.
Questi sono esempi talmente tangibili che talvolta, paradossalmente, non vengono neppure visti e quindi sottovalutati. Però sappiamo tutti che si trova sempre il modo di parlare, soprattutto nei conflitti. Quindi lo sforzo di tutti è quello di appoggiare e sostenere tutti i punti di contatto che ci portano a ricordare che l’altro da noi è un essere umano».
Cosa auguri alla tua terra d’origine e alla tua terra di adozione per poter costruire un futuro migliore?
«Il grande Papa Giovanni Paolo II diceva che “non c’è pace senza giustizia e non vi è giustizia senza perdono“. È fondamentale creare sempre più condizioni di giustizia, e non di accettazione della sopraffazione. Quello che io auguro alla mia terra, oltre che alla pace, è che i ragazzi e le ragazze possano conoscersi e parlare senza confini, senza violenza, senza discriminazioni ascoltandosi l’un l’altro con indulgenza.
Questo è un augurio che vale per i ragazzi del Sud e del Nord del mondo, affinché possano costruire insieme percorsi di confronto e conoscenza. I nostri sono già pronti, perché tendono a venire nel Nord del Mondo, ma anche i ragazzi dell’Occidente devono avere la possibilità di ascoltare i propri coetanei senza stereotipi né paura».
«I luoghi di uguaglianza sono ovunque, e ovunque si può e si deve avere pace, non c’è un posto diverso dall’altro. L’uguaglianza la si può cercare, agire e vivere in tutti i luoghi del mondo»
– Maryam Ismail