di Loredana Beatrici, B.Liver
Il 20 ottobre Loredana apre i quotidiani: guerre, genocidi, massacri e rapine. Il mondo è un posto molto cupo; ma quello stesso giorno Loredana prende parte all'InVisibile Festival, agli IBM studios di Milano, facendo l'incontro di meravigliosi abbracci, vita vissuta e tante piccole storie. Un festival costruito con il "metodo Bullone" che lascia tutti senza parole.
Ricordo il giorno in cui ho sentito Sofia dire: «C’è una notizia splendida: faremo il Festival del Bullone. Non sappiamo quando, non sappiamo dove, non sappiamo chi parteciperà, cosa faremo, come si chiamerà e se ce la faremo».
Il “metodo Bullone”
Ecco! Non propriamente un comunicato stampa accattivante e convincente. Eppure… Tutti sentivamo che sarebbe stato qualcosa di grande, perché tra le varie incognite c’era una certezza: il come si sarebbe fatto. Con il cuore, l’impegno, la passione, l’autenticità e l’ascolto. Il famoso “metodo Bullone”.
E così è stato! Ancora una volta questi ragazzi hanno costruito qualcosa di magico. Sì, magico, perché la sensazione, alla fine di questi tre giorni di Festival, ha a che fare con l’incredulità, lo stordimento e l’incanto che si prova quando si assiste a uno spettacolo di magia. Ve lo siete persi? Mi spiace per voi! Se volete, però, proverò a raccontarvi cosa è stato l’InVisibile Festival.
Il 20 di ottobre…
È venerdì 20 ottobre. Sto leggendo i quotidiani: «Netanyahu definisce i dettagli dell’invasione a Gaza»; «Erdogan evoca il genocidio e la Cisgiordania ribolle»; «Allerta degli 007 sul fronte Est»; «Marta scomparsa, il corpo ritrovato a casa del vicino»; «Milano Gotham City? Rapine e aggressioni fuori controllo»; «A Santa Marinella i disabili discriminati».
Chiudo il computer. Devo correre. Sta per iniziare InVisibile Festival. Prendo la metropolitana e continuo a pensare a ciò che stavo leggendo. Noto il dispiegamento di forze dell’ordine in stazione Garibaldi (ndr. il giorno dopo avrebbero, in quel punto, pestato a sangue un ragazzo ucraino).
In che mondo sto vivendo?
Cosa sto lasciando a mia figlia?
Come possono cambiare le cose? Cosa posso fare io? Esco dalla stazione. Di fronte a me il nuovo sfavillante quartiere di Milano. Mastodontico ed efficiente polo economico. Simbolo di una città proiettata verso il futuro. Sì, ma quale futuro? Tra un grattacielo imponente e un’aiuola perfetta, vedo un anziano rovistare in un cestino della pattumiera. Non posso guardare, non reggo la contraddizione.
Proseguo spedita verso l’IBM Studios. Il nome promette mirabolanti effetti speciali. Sono pronta a filmare tutto, postare tutto, instagrammare il possibile. PICCOLO SPOILER: non farò nulla di tutto questo. Nessun video, se non un paio la prima sera. E come me tutti i partecipanti. Uso le parole di Don Antonio Mazzi: «Non ho mai visto tante persone, tanti giovani, che per così tanto tempo, non hanno chinato la testa sui loro telefonini». FINE SPOILER. E già questo è un «piccolo miracolo».
Ad accogliermi tanti volti amici e tanti volti nuovi. Ci si incontra tra le statue di Cicatrici, camminando sotto un tetto di fogli in cui decine e decine di persone hanno provato a dare una forma alle proprie fragilità. Sto camminando tra e sotto la sofferenza altrui, ma non fa male, anzi, ti accoglie. E ti ritrovi ad accarezzare anche le tue di cicatrici. Come tutti. Insieme a tutti. Gli occhi sono lucidi, le strette di mano diventano abbracci. Qualcuno piange, come una signora sulla cinquantina che nessuno aveva mai visto. O come Oriana, che non può non pensare ad Ale, la cui statua apre la mostra. E poi c’è il direttore del Bullone, Giancarlo Perego, che come una trottola va in giro a «spiegare» statua per statua.
Un itinerario tra le fragilità che diventano ricchezza
Un itinerario tra le fragilità che diventano ricchezza. Diventano racconti ed espressioni di vita. SPOILER: Giancarlo farà così per tre giorni, instancabile. «Per noi le cicatrici sono motivo di orgoglio, tracce di storia da custodire e conservare». Così dirà anche la Prof.ssa Iavarone, quando racconterà che il figlio non ha voluto togliere le cicatrici dal suo corpo, perché definivano quello che era diventato, dopo il dolore di essere stato aggredito e accoltellato, senza alcun motivo, a soli 17 anni». FINE SPOILER.
Mentre passeggiamo in questo luogo di arte ed emozione, inizia la magia della condivisione. Non quella dei social, ma quel sottile filo rosso che unisce le anime. Ed è proprio un filo rosso che usano i ragazzi del Liceo Preziosissimo Sangue di Monza durante la loro performance. Un filo che unisce, nonostante le differenze di età, etnia, religione, colore, abilità e disabilità. È il filo della sofferenza che trova così un senso: quello di comunione. L’individuo si fa tutt’uno con la collettività. Così come i ragazzi, che camminano tra il pubblico, lo coinvolgono e lo accompagnano all’interno del Festival. Non è ancora iniziato ed è già chiaro che questo sarà un luogo dove si creeranno relazioni, un luogo che non lascerà indietro nessuno. SPOILER: «Cavolo, deve salire sul palco Salvatore, ma non c’è una pedana. Che facciamo? Semplice, scendiamo tutti dal palco. E sarà ancora più bello!». FINE SPOILER.
La riunione di redazione
Inizia la riunione di redazione. La solita modalità: Giancarlo, Sofia, Elisa ed Edoardo lanciano temi come fossero palle roventi, nella speranza che qualche «folle» le afferri e dica la sua. Ogni volta sembra impossibile poter rispondere a certe domande. Eppure… la platea è un fiume in piena.
C’è Federica, B.Liver arrivata da Palermo per il Festival, che prende la parola, racconta del padre, apre le porte del suo cuore con naturalezza. Poi tocca a Michele, e mentre parla fa illuminare tutta la carrozzina. E ci strappa un sorriso. Parlano imprenditori, ragazzi, genitori, figli, professionisti. Si discute di merito, di parole, di paradigmi da cambiare e soluzioni da trovare. Come al solito, nessuno sa come da questo confronto ne uscirà un giornale. Ma questo è un altro «piccolo miracolo».
Aperitivo (Giancarlo sempre a fare da Cicerone per la mostra), cortometraggi, chiacchiere e poi è il momento dei ragazzi, dei B.Liver. Uno spettacolo che racconta come da piccola nebulosa si possa diventare una bellissima stella. Non una star da red carpet, ma stella parte di un firmamento. Perché da soli non s’illumina che una piccola porzione di cielo. Perché da solo Mattia (in arte Mat), non potrebbe dipingere con la sua sedia a rotelle, e da solo suo padre non avrebbe quella luce negli occhi, mentre guardano orgogliosi il figlio. La loro relazione commuove: vera e propria opera d’arte! Con questa bellezza nel cuore, con la consapevolezza che solo nell’altro e nella comunità si possa trovare sé stessi si chiude la prima giornata. E siamo tutti un po’ più visibili, a noi e al mondo.
Il sabato è la giornata delle conversazioni. Si parla di lavoro: che cambia forma di continuo; che deve imparare a non confondere esperienza con competenza; che deve far collaborare le diverse generazioni. Un lavoro in cui occorre riconoscere i propri limiti, per superare le barriere. Ma soprattutto un «lavoro che sia guarigione, rivalsa e fattore abilitante», ricorda Francesco Baglioni (direttore di Progetto Itaca).
Si parla di relazioni digitali e della difficoltà di distinguersi in un mare magnum di connessioni. Si riconosce come non siano le lauree e i master a definirci, ma le relazioni che riusciamo a costruire. Si parla di salute mentale e salute sociale. La psicologa Giovanna Fungi fa riflettere su come sia importante «imparare ad ascoltare autenticamente. Non farlo per essere pronti a rispondere, ma per sentire l’altro». Pablo Trincia propone «l’ora nazionale del confronto, durante il weekend». Daniele Biondo rilancia la necessità di un «Nuovo Umanesimo» e il bisogno di «costruire luoghi fisici, mentali e relazionali in cui poter essere realmente sé stessi». Si parla di corpo, da abitare e a cui abituarsi. Il corpo è parte di noi, della nostra identità. È la casa della nostra anima e «non occorre sia patinato, come le case sulle riviste. Occorre sia autentico», sottolinea Fiamma. «Finché il sole bacerà il mio viso, non me ne frega di essere su una sedia a rotelle. La vita ha piegato il mio corpo, ma non la mia volontà», dice Salvatore.
Si è fatto tardi, devo scappare, ma all’improvviso una voce squarcia lo spazio, sulle note di Hallelujah. Ci sento rabbia, grinta, vita vissuta, sofferenza, dolcezza e rivalsa. È Greta, una dei ragazzi della Comunità La Mammoletta Isola D’Elba (Fondazione Exodus). Mi dicono che ha solo 20 anni. Che le canzoni se le scrive lei. Io ho la pelle d’oca. Si avvicina Monica: «Sai… quello che suona il piano è mio figlio. Si è perso che aveva 13 anni, ma adesso ha conosciuto questa Comunità e non vuole più andar via da lì». Non so perché abbia voluto condividere un momento così speciale e delicato con me. E si chiude così il secondo giorno. Con quest’altro «piccolo miracolo».
Il raccconto della domenica
Di domenica c’è un sole inaspettato, come inaspettato è l’arrivo della Banda di Affori a rallegrare il laboratorio di Cicatrici aperto a grandi e bambini. C’è del fermento per il pomeriggio: il lancio del Bullone in Europa. Ci sarà il messaggio di Paolo Gentiloni e di Giovanni Grasso, portavoce del Presidente Mattarella, e il collegamento con Luciano Fontana, direttore di Corriere della Sera. L’emozione di Bob (all’anagrafe Roberto Pesenti, giornalista d’esperienza) è tangibile, e lo è anche quando decide di fare il nonno in prestito per mia figlia.
È il momento dei saluti finali, ma i ragazzi hanno deciso di fare una sorpresa allo staff e mi chiedono di dar loro una mano. Sono emozionata anch’io, mentre con voce rotta Paola ringrazia la Fondazione per aver reso possibile queste giornate. Vorrei stringere tutti, ma la bimba mi si è addormentata addosso. Riesco solo a urlare: «abbracciatevi!». Non so perché. Come se ormai riuscissi a vivere le emozioni attraverso gli altri. Un altro «miracolo».
La guerra è ancora alle porte, di pestaggi, risse e violenze si continua a leggere. Il mondo fuori non è cambiato in questi giorni, ma io ho una nuova consapevolezza: che esista un modo alternativo di fare business, di scrivere giornali, di organizzare festival, di fare scuola e di creare relazioni. E se ognuna delle 1.500 persone che sono passate per questo Festival riuscisse a portare un po’ di questo fuori dagli IBM Studios e a contagiare altri… allora, forse, potrebbe avvenire il vero grande «MIRACOLO».
You may say I’m a dreamer,
But I’m not the only one
I hope someday you’ll join us
And the world will be as one
Lo so, non si fa in un giornale, ma questo articolo lo dedico a quel visionario di Bill. Un uomo in grado di scriverti (rigorosamente via SMS): «Per il momento mi accontento della mia parzialità» e nel frattempo non si accorge di compiere piccoli grandi miracoli.
“Sto camminando tra e sotto la sofferenza altrui, ma non fa male, anzi, ti accoglie. E ti ritrovi ad accarezzare anche le tue di cicatrici. Come tutti. Insieme a tutti.“
– Loredana Beatrici