Intervista impossibile a Italo Calvino: “La leggerezza è un modo di guardare il mondo”

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Cinzia Farina, cronista del Bullone e Paolo Di Stefano (giornalista e scrittore, già responsabile della pagina culturale del Corriere della Sera, ha lavorato per la Repubblica e per la casa editrice Einaudi) hanno avuto un incontro emozionante con Italo Calvino, uno tra i maggiori scrittori del secondo Novecento, di certo il più famoso, tradotto e conosciuto in tutto il mondo. Questa è l'intervista impossibile di questo numero,

di Paolo Di Stefano, Cinzia Farina e Italo Calvino

Cinzia Farina (cronista del Bullone) e Paolo Di Stefano (giornalista e scrittore, già responsabile della pagina culturale del Corriere della Sera, ha lavorato per la Repubblica e per la casa editrice Einaudi) hanno avuto un incontro emozionante con Italo Calvino, uno tra i maggiori scrittori del secondo Novecento, di certo il più famoso, tradotto e conosciuto in tutto il mondo. Questa è l'intervista impossibile di questo mese.
Italo Calvino (Santiago de Las Vegas, Cuba, 1923 – Siena, Italia, 1985). Scrittore e paroliere italiano. Intellettuale di grande impegno politico, civile e culturale, è stato uno dei narratori italiani più importanti del secondo Novecento.

Ci sono ancora angoli di leggerezza anche nel nostro mondo, ma tutto con moderazione

Vista la pesantezza della vita di oggi, che cosa ci direbbe proprio lei che ci ha insegnato a vivere il grigiore della vita con levità?

«Ci sono ancora angoli di leggerezza anche nel nostro mondo, penso a certi magnifici spettacoli teatrali, certi film. Come sapete ho amato il cinema, ad esempio, ho molto apprezzato l’ultimo film di Wim Wenders. Penso anche a certe manifestazioni dello sport, all’autentica rivelazione di Jannik Sinner, campione della leggerezza nel muoversi e nel giocare la palla.

Per me la leggerezza non è propriamente superficialità, intendo un modo di guardare il mondo e di interpretarlo in un’ottica nuova. La letteratura ha la possibilità di cercare, di spiegare la drammatica pesantezza che ci circonda e raccontare il mondo nella sua essenzialità, nella sua sottile sostanza, liberando l’universo dalle zavorre inutili e ingombranti che ci danno fastidio».

I cinque temi del suo libro Lezioni americane sono leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, e molteplicità. Vengono definite da lei come le qualità necessarie da proiettare nel nuovo millennio. Le ritrova oggi? 

«In qualche misura credo che queste qualità ci siano, ma conservano dentro di sé dei pericoli che si rivelano quando vengono usate male. Per esempio, oggi siamo leggeri: il nostro è il tempo della leggerezza, del software, dei droni, degli eBook, che rispetto al libro fisico non hanno peso. Oggi è l’epoca dei giornali digitali, online. Tutto questo sarebbe magnifico se non esistesse il problema che la leggerezza eccessiva, o mal intesa, rischia di disperderci nel nulla.

È dimostrato dagli scienziati che la lettura leggera in rete non ha l’efficacia di quella su carta: quest’ultima risulta essere più profonda e si incide meglio nella memoria. La rapidità, è vero, oggi trionfa, per esempio negli spostamenti, nei collegamenti e naturalmente ci rende la vita più semplice rispetto al passato, questo è sicuramente un pregio: viviamo una vita più comoda, ma se l’eccesso di rapidità provoca invece una vertigine, o un ingorgo clamoroso, allora non va più bene. Se dobbiamo usare il minor tempo possibile in tutte le cose che facciamo, rischiamo ancora una volta di essere superficiali oppure di cadere nella paralisi». 

Paolo Di Stefano, giornalista e scrittore, già responsabile della pagina culturale del Corriere della Sera, ha lavorato per la Repubblica e per la casa editrice Einaudi.

La Resistenza mi ha messo al mondo come uomo e come scrittore

Durante la seconda guerra mondiale lei era partigiano, poi ha lavorato per il PCI. Si è definito anarchico. Perché? 

«Per sottolineare il mio spirito di libertà. Avevo aderito al partito comunista non per una convinzione di tipo ideologico, ma pensavo fosse necessario, a un certo punto, passare all’azione. Il PCI in quel momento rappresentava un buon modo per intraprenderla, era la forza più attiva e organizzata.

Ripeto, però, sul piano ideologico non è che mi riconoscessi particolarmente nel comunismo, in realtà ho sempre detto che è stata la Resistenza a mettermi al mondo come uomo e come scrittore. Tutto quello che ho pensato e scritto partiva da quell’esperienza, che era molto più importante di ogni adesione a qualunque partito. Finita la guerra mi sono trasferito a Torino, ho lavorato all’Einaudi e all’Unità e ho conosciuto Elio Vittorini e Cesare Pavese, una persona che per me ha contato moltissimo».

Hanno ancora un senso oggi libri come Il visconte dimezzato, Il barone rampante e Il cavaliere inesistente?

«La letteratura fantastica è quella che riesce a spiegare il mondo meglio di altri tipi di scrittura. Una volta ho detto che chi accetta il mondo così com’è è uno scrittore realista, chi lo vuole cambiare, invece, sarà sempre uno scrittore fantastico. In questo senso penso che la trilogia di cui sopra possa avere ancora un futuro. Ognuno di quei libri ha una diversa gradazione di fantasia». 

Lei è passato dal raccontare la guerra, quindi dall’essere un neorealista, ad essere un visionario, come si definirebbe oggi?

«Più che uno scrittore visionario direi che sono stato, a un certo punto, uno scrittore di invenzione fantastica, successivamente sono diventato uno scrittore di racconti e di discussioni che affrontavano le grandi questioni dell’età contemporanea. Da un certo momento in poi, ho avvertito l’esigenza di scrivere racconti di riflessione, infine sono tornato a scrivere cose più astratte. Credo, comunque, che una linea costante dei miei libri sia stata l’ironia, che dà un’aria un po’ sospesa alla mia scrittura e una certa leggerezza». 

Cinzia Farina, laurea in Lingue e Letterature moderne, ha frequentato l’Istituto di medicina psicosomatica, specializzata in alimentazione, cronista del Bullone

L’ispirazione? Elio Vittorini e Cesare Pavese sono stati fondamentali

Chi è l’intellettuale che ha influito di più sulla sua formazione? 

«La prima persona è Elio Vittorini, che ha lavorato con me all’Einaudi per la collana dei Gettoni e per Il Menabò. Vittorini sapeva mettere una passione straordinaria, una forza polemica nelle scoperte letterarie che faceva. La seconda persona che ha influito moltissimo sulla mia formazione è stato Cesare Pavese. L’ho conosciuto nel 1946: era lui a leggere tutto quello che scrivevo. Appena finivo un racconto correvo da lui a farglielo visionare. Quando è morto, nel 1950, pensai addirittura che non sarei più riuscito a scrivere niente». 

Nel suo articolo Gli dei della città per vedere una città non basta tenere gli occhi aperti, ma bisogna rimuovere gli ostacoli che ci impediscono la visione. In realtà c’è qualcosa delle nostre città attuali. Come fanno i suoi romanzi ad essere così all’avanguardia? 

«Direi più esattamente che i miei romanzi sono sperimentali, nella mia carriera letteraria ho continuato a sperimentare generi e modi di scrittura sempre diversi, non mi è mai piaciuto ripetermi».

“La letteratura fantastica è quella che riesce a spiegare il mondo meglio di altri tipi di scrittura. Una volta ho detto che chi accetta il mondo così com’è è uno scrittore realista, chi lo vuole cambiare, invece, sarà sempre uno scrittore fantastico

– Italo Calvino

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