Lettera al Sindaco di New York
Dear Eric Leroy Adams,
sappiamo che fanno paura. O meglio, sappiamo che facciamo paura ogni volta che ci osservate incurvarci su quelle tavolette in 4K, gli occhi incollati agli schermi. E forse la stessa paura la provavano i genitori che guardavano i loro figli giocare al videogame di Pong, nei primi anni ’70, o i genitori dei loro genitori, quando la televisione entrava nei salotti di tutte le case. Il cambiamento spaventa e noi sappiamo che a spaventare è proprio l’attenzione che noi giovani regaliamo a questi oggetti sottili e costosi. Ne abbiamo discusso a lungo durante la riunione di redazione del Bullone, in uno spazio di grande confronto in cui chi ha i capelli bianchi ascolta e riflette circondato da un gruppo variegato di Millennials e giovani della Gen Z che nemmeno se li ricordano i 160 caratteri di un SMS.
Due spazi: speakeasy e le care vecchie aule
Vorremmo ora proporti due immagini. Due spazi, in realtà. Il primo è uno Speakeasy. Esattamente, parliamo proprio di quei cocktail bar nascosti tra le strade delle vostre grandi città, nati durante l’epoca del proibizionismo, dove venivano vendute illegalmente bevande alcoliche. Locali in cui l’esclusività dettava legge: luoghi il cui l’accesso era consentito unicamente ai possessori di una parola d’ordine, un segnale o un gesto, spesso tramite passaggi segreti attentamente mascherati. Locali notturni nati per rispondere sfacciatamente alle parole del senatore Andrew Volstead, che nel 1920 dichiarava: «I quartieri umili presto apparterranno al passato. Le prigioni e i riformatori resteranno vuoti. Tutti gli uomini cammineranno di nuovo eretti, tutte le donne sorrideranno e tutti i bambini rideranno. Le porte dell’inferno si sono chiuse per sempre».
Fa riflettere, oggi, sapere che, proprio in quel primo anno di proibizionismo, nella sola New York fossero presenti 32.000 speakeasy, contro i soli 15.000 bar legittimi attivi prima del Volstead Act, no? Allora ci siamo chiesti: è davvero la soluzione, quella di proibire l’accesso ai social media? Capiamo bene il senso del suo gesto, dell’intenzione morale di far causa al mondo di Meta (Facebook e Instagram), Alphabet (YouTube), Snap Inc. (Snapchat) e ByteDance (TikTok) per accendere i riflettori sui 100 milioni di dollari all’anno spesi per i programmi di trattamento della salute mentale dei giovani. Capiamo. Ma non vorremmo nemmeno che il mondo giovanile si trovasse nella condizione di doversi rintanare in speakeasy del nuovo millennio per mantenere la liceità di trascorrere del tempo incollati agli smartphone.
Sono i social la droga dell’ultimo secolo? Forse. Ma allora per combatterli consapevolmente ci vuole ben altro. Eccoci quindi alla seconda immagine, al secondo spazio: l’aula. La cara e vecchia aula. Quella stanza rettangolare in cui tanti giovani spendono il loro tempo adolescenziale, scolastico, universitario. Quattro mura che, chissà perché, invece di adeguarsi ai rapidi mutamenti sociali, culturali e tecnologici sono rimaste identiche a quelle del 1920. Banchi, lavagne, cartine geografiche, bacheche. Se fosse lì, la risposta? Nell’educare. Educare, seguendo l’etimologia latina di questo splendido verbo: E-DÙCERE, condurre fuori. Condurre fuori nel senso di allontanare dalle cattive inclinazioni, combattere i comportamenti non adeguati. Condurre fuori per accompagnare lontano. Raccontare alle nuove generazioni che il mondo là fuori è molto più interessante, stimolante e vero (soprattutto vero!) di quello chiuso lì dentro, in quel piccolo schermo. Condurre fuori per stare vicino. Per far crescere con consapevolezza generazioni che non tollererebbero proibizionismi, ma gioirebbero di una valida alternativa umana.
– Fiamma Invernizzi
Capiamo. Ma non vorremmo nemmeno che il mondo giovanile si trovasse nella condizione di doversi rintanare in speakeasy del nuovo millennio per mantenere la liceità di trascorrere del tempo incollati agli smartphone.