Philippe Daverio: parliamo di Europa
So che oggi parlare d’Europa è un po’ andare fuori tendenza. Però, quando per la prima volta mi capitò di parlare d’Europa, ho approfondito i testi di Duns Scoto, filosofo scozzese del quattordicesimo secolo, diventato francescano, che, conosciuto come Doctor Angelicus, veniva dall’Inghilterra e insegnava a Parigi e poi andava a Colonia. Quando per la prima volta mi occupai di Tommaso D’Aquino, teologo del tredicesimo secolo, ho scoperto che era partito a piedi attraverso l’Europa su e giù ed era andato a Parigi a fare la «confutatio» e poi a Colonia a fare la «lectio». Come Alberto da Ockam, filosofo medioevale inglese, che da Ockam era sceso a Parigi, poi nel Meridione e poi se ne andò a morire a Monaco di Baviera avendo sancito la fortuna nostra, della nostra funzione e di tutto il mondo intellettuale.
A loro sembrava naturale parlare d’Europa. L’Europa nacque e sopravvisse tra gli intellettuali come Wolfang Goethe, Gioacchino Rossini e Giuseppe Verdi. L’Europa morì molto spesso negli stati generali degli eserciti. Eppure loro avevano già l’Europa.
Talvolta mi viene da pensare che ci fosse più Europa prima della Prima Guerra Mondiale. Certo, lo era per una parte ristretta della società, forse per l’uno per cento degli abitanti del Vecchio Continente. Quell’uno per cento aveva l’abitudine di parlare due o tre lingue senza doversi vergognare, parlava anche alcuni dialetti per divertirsi, aveva delle biblioteche assai articolate e dei parenti ovunque, talvolta anche delle amanti o degli amanti.
Quel mondo europeo è scomparso nel ventesimo secolo ed è stato dimenticato. È quel mondo che però rimane ancora vivo. Quando Carlo Magno – combinando un po’ di guai e anche un po’ di massacri – correva su e giù tra Aquisgrana e Roma, quando le politiche del pensiero portavano i grandi chierici vaganti da una sede universitaria all’altra: era Europa.
Il 21 agosto del 1849, il primo, vero, trambusto europeo fu la rivoluzione del ‘48, quella che incendiò Parigi come Milano, Milano come Brescia, come Dresda, come Vienna, come la Polonia, come Napoli, come Palermo. Fu la prima volta che fummo uniti da un afflato rivoluzionario. Victor Hugo scrisse un testo che andrebbe ripubblicato in varie lingue: «Un giorno verrà la Russia, la Francia, l’Italia, la Germania, voi tutte nazioni del continente, senza perdere le vostre qualità distinte e la vostra gloriosa individualità, vi fonderete strettamente in un’unità superiore e vi costituirete nella fraternità europea». Eravamo allora nel 1849: strada lunga, però ottimo seme.
Si pensava allora all’emancipazione, si pensava allora al lavoro, si pensava allora all’Europa.
Fu la prima volta che fummo uniti da un afflato rivoluzionario. Forse è il momento di tornare ad essere romantici.
Dalla lectio magistralis, Università degli Studi di Bergamo, settembre 2016.
– Philippe Daverio
“Quel mondo europeo è scomparso nel ventesimo secolo ed è stato dimenticato. È quel mondo che però rimane ancora vivo. Quando Carlo Magno – combinando un po’ di guai e anche un po’ di massacri – correva su e giù tra Aquisgrana e Roma, quando le politiche del pensiero portavano i grandi chierici vaganti da una sede universitaria all’altra: era Europa.”