Essere Europei: una storia lunga millenni che passa attraverso il cibo, la scrittura, e la differenza
Kebab, sushi, hamburger, pizza… cos’hanno in comune queste specialità, che da noi e nel mondo ormai si trovano ovunque, e sono spesso identificate con quello che si chiama «fast food»? La risposta sta nell’evoluzione della cultura, o per meglio dire, di varie culture e delle loro contaminazioni. Certo, qui si tratta di cultura materiale, del cibo, ma è anch’essa una delle tantissime accezioni che si danno al termine più generale di cultura, e sono comunque espressione di culture apparentemente distanti tra loro.
Ma come si arriva a questo? È difficile dare una risposta univoca, e lo si nota già dalle diverse interpretazioni che gli studiosi attribuiscono al termine. Basti pensare che due illustri antropologi statunitensi, in una pubblicazione degli anni ‘50, elencavano per questo concetto addirittura 163 definizioni! Tuttavia, si può almeno concordare su due aspetti principali, uno individuale e l’altro collettivo, come si legge nell’introduzione alla voce «cultura» della Treccani:
«L’insieme delle cognizioni intellettuali che, acquisite attraverso lo studio, la lettura, l’esperienza, l’influenza dell’ambiente e rielaborate in modo soggettivo e autonomo diventano elemento costitutivo della personalità, contribuendo ad arricchire lo spirito, a sviluppare o migliorare le facoltà individuali, specialmente la capacità di giudizio. – Complesso delle istituzioni sociali, politiche ed economiche, delle attività artistiche e scientifiche, delle manifestazioni spirituali e religiose che caratterizzano la vita di una determinata società in un dato momento storico».
Insomma, non è una faccenda semplice, e la cultura non è certo riducibile a un bagaglio di nozioni che ciascuno di noi si fa. È invece qualcosa di dinamico, in continua evoluzione e frutto di innumerevoli scambi tra individui e popolazioni.
Tornando ai nostri fast food (e già il termine preso in prestito dal mondo anglosassone è sintomo di contaminazione tra diverse culture) possiamo ovviamente dire che la loro diffusione è dovuta alla globalizzazione sempre più spinta, caratterizzata da moltissimi elementi: facilità di spostamento, migrazioni tra nazioni differenti, aumento in velocità e quantità delle informazioni che vengono trasmesse, ecc.
Tutto questo vale naturalmente per ogni aspetto del concetto di cultura, ma non si può negare che nel suo senso più generale, per determinati periodi e comunità, aree, regioni, nazioni, sia riconoscibile per caratteri e identità particolari che ci paiono a prima vista immutabili.
Prendiamo, ad esempio, la moderna cultura europea, estremamente variegata e che affonda le sue radici in un mondo remoto nel tempo, che tendiamo ad associare in modo più ampio a tutta la cultura occidentale: anzi, alla civiltà occidentale, dato che «cultura» e «civiltà» sono spesso abbinate o considerate come sinonimi. Andando a ritroso nella Storia, ne troviamo tracce fondamentali nell’antico mondo greco, in quello che ha espresso nelle arti in genere, nella filosofia, nella creazione di istituzioni sociali come la democrazia.
Certo, quella ateniese era una democrazia ben diversa da quella che viviamo oggi: solo un numero limitato di cittadini aveva diritto di voto e le donne ne erano escluse, solo per fare due esempi. Resta il fatto che rimane il primo caso di questo genere di istituzione apparso nella Storia. Nel corso di pochissimi secoli quella democrazia è come sparita, lasciando però preziose testimonianze scritte che l’hanno fatta rinascere molto più tardi.
Proprio la scrittura riveste un ruolo importantissimo nella trasmissione culturale tra individui, popolazioni, comunità e società. Sempre restando in Europa, è proprio grazie ad essa che è stato possibile preservare e comunicare l’immenso retaggio culturale del mondo classico che, oltre l’antica Grecia, include naturalmente il mondo romano. L’alfabetizzazione è stata a lungo riservata a una élite di poche persone, e il latino la lingua predominante nel convogliare il sapere, ma riusciva comunque a impattare notevolmente sulle società. Importantissimo, in tutto il Medioevo (erroneamente una volta considerato un’epoca buia) è stato l’assiduo lavoro dei monaci amanuensi, che traducevano e trascrivevano preziosi testi non solo religiosi. Ciò ha permesso una linea di trasmissione di varie culture attraverso i secoli, adattandole e trasformandole a seconda del periodo storico, sociale e politico.
Insomma, non è un caso che grazie a tutto questo lavoro Dante abbia potuto realizzare la sua Divina commedia (in italiano volgare, non in latino) scegliendo come guida nell’aldilà l’autore dell’Eneide, Virgilio, che a sua volta si rifaceva al greco Omero. E un paio di secoli dopo la sua diffusione fu enorme, grazie all’invenzione della stampa a caratteri mobili per opera di Johannes Gutenberg. Ma se tutti conosciamo l’importanza della stampa nel mondo occidentale, forse in pochi sanno che questo procedimento era già utilizzato ben quattro secoli prima di Gutenberg in Cina.
E qui si apre un altro capitolo fondamentale: ogni cultura (a livello nazionale, regionale, locale, individuale) è portata a considerare sé stessa come superiore alle altre. Si tratta, invece, di un errore, e la maggior parte degli studiosi è concorde nel ritenere che non esistano culture superiori o inferiori ad altre. Naturalmente, in determinati momenti storici ci sono state culture/civiltà predominanti rispetto ad altre per periodi anche lunghi e hanno depositato tracce durature. Si pensi all’Impero romano e ai suoi lasciti, ad esempio quello linguistico, con molte nazioni (Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Romania, e molte parlate locali, oltre a ex colonie europee quali Brasile e la totalità dell’America latina) che ancora oggi hanno una lingua di derivazione latina, e alla cultura giuridica. Il Diritto romano, infatti, è stato applicato, con pochi cambiamenti per ben tredici secoli, e gli ordinamenti giuridici successivi ne hanno ripreso alcuni aspetti.
Il perché in date epoche certe culture e le civiltà che esprimono siano state dominanti rispetto ad altre non sta in un’ipotetica superiorità, ma risiede in un insieme complesso di fattori. Per esempio, lo sviluppo del «modello occidentale», che ha riscosso e riscuote tuttora enorme successo, è stato spiegato dal ricercatore multidisciplinare Jared Diamond nel suo saggio divulgativo (un vero bestseller) Armi, acciaio e malattie (Einaudi, 1998). Secondo Diamond, le popolazioni rispondono prima di tutto a pressioni ambientali casuali e vi si adattano, sviluppando così un determinato tipo di cultura, modo di vita, produttività. Ed è proprio il caso dell’Europa e di tutto quello che oggi va sotto il nome di Occidente.
Inoltre, ciò che per una cultura è considerato giusto può benissimo non esserlo per un’altra. Questo, riprendendo il discorso iniziale sul cibo, fa venire in mente un libro dell’antropologo Marvin Harris, Buono da mangiare (ultima edizione italiana Einaudi, 2015). Qui Harris (che, è bene ricordare, ha avuto tantissimi sostenitori ma altrettanti critici) parte da alcune domande: perché alcuni mangiano cani, gatti e dingo, mentre altri evitano la carne di mucca, maiale o cavallo? Perché alcuni odiano il latte e i suoi derivati, mentre altri considerano cibo prelibato lombrichi e cavallette? Perché le abitudini alimentari dei popoli cambiano nel tempo e sono così diverse? Harris nel cercare di rispondere arriva ad alcune conclusioni spesso sorprendenti. Per citarne una, analizzando il tabù culturale e religioso degli induisti riguardo la carne di mucca, sostiene che questa loro scelta ha origini antichissime, come un modo di riservarsi quella che per loro è un’importante fonte di sostentamento, sotto forma di animali da lavoro in agricoltura e come fornitrici di latte.
Dunque, secondo Harris, la proibizione di cibarsi delle vacche avrebbe avuto origine da fattori di tipo materiale e sarebbe poi stata riformulata in termini culturali, in particolare religiosi. In definitiva, perciò, non solo letteratura, pittura, scultura, musica, filosofia, arti visive, insomma le «solite cose» che tendiamo ad associare all’idea di cultura, ma piuttosto un complesso insieme di elementi che creiamo e che, allo stesso tempo, plasma le nostre vite.
– Edoardo Grandi
“In definitiva, perciò, non solo letteratura, pittura, scultura, musica, filosofia, arti visive, insomma le «solite cose» che tendiamo ad associare all’idea di cultura, ma piuttosto un complesso insieme di elementi che creiamo e che, allo stesso tempo, plasma le nostre vite.”