Intervista ad Irene, volontaria di soccorso
Irene, una giovane signora dai riccioli scuri, è sposata con un medico e hanno due figli ormai indipendenti. Arriva in moto all’appuntamento. Toglie il casco e inizia a raccontarmi che ha scoperto da qualche anno la meditazione e da sola ha fatto alcuni cammini di pellegrinaggio in Italia, a piedi o in bicicletta. Sono incuriosita dal volontariato che svolge, ormai da otto anni, come soccorritrice in ambulanza con la Croce d’Oro Milano.
Come mai ha pensato di impegnarsi in questo tipo di volontariato?
«Ho iniziato più per me stessa, per sapere cosa non fare in certe circostanze di emergenza, in cui puoi commettere errori fatali, soprattutto quando hai poco tempo per intervenire. Avevo i bambini piccoli e i genitori anziani. Ho pensato a loro».
Poi cosa è successo?
«Giorno dopo giorno, senza avere un progetto in mente, ho frequentato il corso di un anno dove impari le nozioni teoriche e poi fai pratica di rianimazione cardio-polmonare e altre manovre su un manichino. L’esame scritto e pratico è molto complesso. Una volta superato, si diventa operativi, mettendo a frutto quanto imparato. E lì ti rendi conto quanto l’aspetto umano emerga in modo potente come scambio tra i soccorritori e le persone soccorse.
Mi sono appassionata. Ricevo un appagamento psicologico notevole, perché mi rendo utile e disponibile per chi è in un momento di necessità fisica e psicologica. L’adrenalina che ci sostiene diviene come una droga che fa star bene. Non è però il risultato di una debolezza, una dipendenza, anzi è l’esito di molta fatica, sia fisica che mentale. È necessario un certo equilibrio psico-fisico, perché non ci si può caricare di pesi altrui se non si è abbastanza leggeri».
Che difficoltà si incontrano principalmente?
«Spesso ci sono fattori incontrollabili, come le reazioni di panico dei parenti, o condizioni contingenti particolari, dal suicidio a traumi importanti. Il più delle volte ci si trova davanti a situazioni tranquille, per fortuna. Poi dobbiamo relazionarci con le forze dell’ordine. Fondamentale è applicare scrupolosamente il protocollo clinico, traumatico e di rianimazione e rimanere lucidi e presenti alla situazione specifica.
La squadra è composta da 3 – 4 persone. Aiuta molto essere affiatati tra di noi. I militi hanno un ruolo molto operativo, coordinato spesso dal capo servizio, che agisce da fulcro. È il referente che deve individuare in dettaglio la situazione e interagire con la centrale operativa del 118, che indirizza nell’ospedale più idoneo. A Milano vi sono tanti presidi territoriali capillari distribuiti a cerchi. Siamo considerati gli occhi del 118. L’autista non è solo responsabile del trasporto, ma coordina tutto l’equipaggio. Non c’è un medico tra noi, non facciamo diagnosi, non somministriamo terapie.
Dobbiamo capire di che problema si tratta e riferirlo. Per noi le chiamate, a seconda della gravità richiedono interventi che si distinguono tra “emergenza”, in cui la vita del paziente è in pericolo ed è necessario un intervento tempestivo, nell’arco di alcuni minuti, mentre per l’”urgenza”, il tempo d’intervento, per non avere un esito fatale, è al massimo di qualche ora. Il codice va da verde, meno grave, poi giallo, medio, rosso più grave. Gli ospedali hanno introdotto delle fasi intermedie da verde-azzurro-giallo-arancio-rosso. Il capo servizio si confronta prima con il 118, poi con la persona del triage dell’ospedale.
Durante l’intero processo il codice di gravità può cambiare. Spesso i parenti o il paziente stesso non hanno una visione obiettiva della gravità. Nelle grandi emergenze, che di solito coinvolgono problemi di cuore, traumi cranici o neurologici tipo ictus o TIA, bisogna agire in fretta. Quando arriviamo a destinazione, dobbiamo inquadrare velocemente la situazione e agire di conseguenza applicando il nostro protocollo. È importante verificare lo scenario clinico: di quale patologia si tratta o se è un trauma da caduta o incidente. Si fa l’anamnesi, come una specie di scannerizzazione della situazione per capire come affrontarla e risolverla».
Ci vuole molto sangue freddo. Non le capita mai di bloccarsi o di andare in panico?
«Per fortuna sono sempre riuscita ad essere attiva e presente. Seguendo il protocollo di solito non si hanno sorprese. Certo, di fronte a fatti tragici e alla morte della persona, subentra l’aspetto psicologico. Al momento ho sempre reagito in modo proattivo, mentre nei giorni successivi ritornano in mente di continuo quelle immagini. Facciamo un “debriefing” dopo ogni servizio, cioè ci confrontiamo tra noi e ci supportiamo l’un l’altro».
– Irene
“Certo, di fronte a fatti tragici e alla morte della persona, subentra l’aspetto psicologico. Al momento ho sempre reagito in modo proattivo, mentre nei giorni successivi ritornano in mente di continuo quelle immagini. Facciamo un “debriefing” dopo ogni servizio, cioè ci confrontiamo tra noi e ci supportiamo l’un l’altro.”
Con che frequenza presta servizio?
«Un giorno in settimana dalle 6 di sera alle 6 di mattina. Minimo 2 notti al mese. A volte dobbiamo coprire alcuni giorni festivi ed essere di supporto a eventi o manifestazioni. Di settimana in settimana si decidono i turni e i compagni di squadra cambiano. Siamo di varie età e professioni. Ci si abitua a interagire tra persone molto differenti. Spesso si affrontano situazioni tragiche, ma a volte anche buffe. Si cerca di sdrammatizzare e di rimanere positivi. Ci si confronta con chi ha più esperienza.
L’autista ha un ruolo importante: è la persona con più esperienza, deve agire con sicurezza e saper gestire i propri sentimenti. Ci insegnano che, se in un certo momento non ce la sentiamo di affrontare un incarico, è meglio fare un passo indietro, per non recare danno al lavoro di squadra e in ultima analisi alla persona da soccorrere».
Mi sembra di capire che nonostante le difficoltà lei lo faccia con passione…
«Sì, certo. Imparo sempre qualcosa. Mi confronto con realtà molto diverse. Spesso abbiamo a che fare con pazienti psichiatrici, tossicodipendenti. Ricevo molto dalle esperienze umane. Si innesca un canale emotivo che ti spinge a continuare, non puoi più smettere. Accumulo esperienze e modifico i punti di vista. Non ho più preconcetti dogmatici a cui riferirmi. Conosco dei lati di me che mi stupiscono. Scopro la mia emotività in certi contesti. Faccio un esempio: siamo stati chiamati da una mamma perché la sua neonata non respirava più, era già tutta scura in volto, forse le era andato di traverso qualcosa. Quando si è ripresa, sono stata travolta da un’esplosione di gioia mai provata, che mi ha stupita e mi ha fatto star bene».
– Irene
“E lì ti rendi conto quanto l’aspetto umano emerga in modo potente come scambio tra i soccorritori e le persone soccorse. Mi sono appassionata. Ricevo un appagamento psicologico notevole, perché mi rendo utile e disponibile per chi è in un momento di necessità fisica e psicologica. L’adrenalina che ci sostiene diviene come una droga che fa star bene. Non è però il risultato di una debolezza, una dipendenza, anzi è l’esito di molta fatica, sia fisica che mentale. È necessario un certo equilibrio psico-fisico, perché non ci si può caricare di pesi altrui se non si è abbastanza leggeri.”