“Tumore”, una parola che colpisce in faccia come uno schiaffo non programmato
«Buonasera Lucia», mi disse un giovane medico pelato. «Buonasera», risposi tranquilla, mentre mia mamma seduta di fianco a me tamburellava, meno tranquillamente, la gamba. «La informo che abbiamo trovato una neoplasia alle meningi». Neoplasia non mi suonava bene. Essere nel dipartimento di neurochirurgia dell’ospedale di Parma alle 8.30 di sera non prometteva bene, ma io non lo stavo capendo.
«E che cazzo significa neoplasia?». Non dissi cazzo, ma era sottinteso dal mio tono di voce. Respiro un attimo, la gamba di mia mamma si ferma per un secondo, e il giovane medico disse: «Neoplasia significa tumore».
Mi sono sentita come quando nei film americani si vede il protagonista, o un suo grande amico, genitore, o partner che è in macchina, guarda il telefono per un secondo e, in quell’esatto momento, passa un tir che lo investe, si sente il rumore lontano di un clacson e tutto diventa nero.
Una cosa del genere.
Alla velocità della luce il medico aggiunse che i tumori alle meningi sono quasi sempre benigni, ma non me ne fregava niente. Pensavo che le meningi fossero in gola, non avevo idea di cosa fosse una neoplasia, non mi interessava se era benigno o meno, il punto è che avevo un tumore. Quella cosa di cui avevo sentito parlare così tanto, quella cosa che rendeva la gente pelata, ero già pronta ad andare a comprare dei copricapo probabilmente. Quella cosa che ancora vince sul progresso dell’uomo, nonostante i suoi sviluppi. Quella cosa che è fondamentalmente sinonimo di morte, o peggio, di non-vita.
Beh, non avevo capito niente, per mia fortuna.
Una craniotomonia, cure poco simpatiche: ma non era nulla in confronto a quello che mi aspettavo
Ho dovuto fare una craniotomia, ho dovuto rasarmi mezza testa, ho dovuto fare cure poco simpatiche, ma nulla di quello che ho vissuto aveva a che vedere con quello che mi ero immaginata, nel bene e nel male. Vivendolo, tuttavia, mi sono resa conto di quanto ci sia un immaginario prestabilito associato al concetto di tumore. Come se non fosse una malattia come le altre, ma una cosa a parte.
Ogni volta che dico di avere un tumore, infatti, è come se assumessi un’aura diversa agli occhi degli altri. Una sorta di santità da un lato, perché l’ho combattuto e sono sopravvissuta, dall’altro una forma di compassione imprescindibile, che, anche se avessi ucciso qualcuno, comunque “poverina ha avuto un tumore“. Divento quella con il tumore, non più Lucia.
Il “bonus tumore”
All’inizio della malattia è stato utile, perché percepirmi solo in funzione della malattia era l’unico modo per giustificare i miei 15 chili in più, la mia faccia deformata, le mie articolazioni non funzionanti. Non ero Lucia, ero un meningioma, e quindi ero legittimata a non funzionare come tutti gli altri. Mettevo davanti lo scudo della malattia, e quindi ero salva dalle aspettative della normalità. Altre volte è stato inaspettatamente vantaggioso. Attiva quello che chiamo il bonus tumore: se dici che hai avuto un tumore puoi ottenere tutto quello che vuoi. Una volta mi hanno fatto uno sconto in un negozio perché ho raccontato la mia storia e la commessa – commossa – con la testa lievemente abbassata e gli occhi lucidi mi ha detto: «siamo a posto così».
A volte mi dà un po’ fastidio quando gli altri non lo nominano, anche se alludono al tumore con lo sguardo dolce, e il loro «come stai?» che vuole sentire solo come risposta un «bene», perché è proprio una brutta roba e non se ne può parlare, dando per scontato che io non ne voglia parlare. E invece cavolo se ne voglio parlare! altrimenti non starei scrivendo questo articolo. Voglio urlare il mio dolore, e mi dà fastidio che gli altri girino la testa dall’altra parte, o manifestino disagio quando provo a nominarlo.
Li capisco, perché io in primis avevo fatto la stessa identica cosa davanti a quel medico pelato in ospedale a Parma. Ma, con la consapevolezza di poi, invito tutti a decostruire l’immaginario che associamo al tumore, perché non si ha idea di cosa sia fino a quando non lo si vive. E anche quando lo si vive, non si ha idea di cosa abbia vissuto un’altra persona. Possiamo invece dare spazio all’esperienza dei singoli, che non sono solo pazienti oncologici, ma esseri umani come tutti. Fatta la morale, se volete continuare a farmi sconti, quelli li accetto volentieri.
– Lucia Robuschi
“Ogni volta che dico di avere un tumore, infatti, è come se assumessi un’aura diversa agli occhi degli altri. Una sorta di santità da un lato, perché l’ho combattuto e sono sopravvissuta, dall’altro una forma di compassione imprescindibile, che, anche se avessi ucciso qualcuno, comunque “poverina ha avuto un tumore“. Divento quella con il tumore, non più Lucia.“